Cane guida per muti (storia minima)

Sono autosufficiente. Posso attraversare la strada di giorno e di notte, posso scendere a comprare le sigarette al distributore automatico del tabaccaio e andare al cinema a vedere la versione restaurata di ET. Anche al supermercato non ho problemi, tanto con i cassieri non ci si rivolge mai la parola. Però, se devo ordinare una pizza a domicilio, sono in difficoltà. Perché sono muto. Cazzo, direte, scendi di sotto e mostri al pizzaiolo la tua ordinazione su un pezzo di carta! Certo, già fatto, mille volte, se è per questo. Ma non è divertente lo stesso. Nonostante internet, le mail, gli sms e quant’altro, il telefono serve ancora. E poi io non sono stato sempre muto, prima parlavo, e certe abitudini è difficile perderle. Così ho chiesto ad un mio amico di procurarmi un cane guida per muti. Stavamo parlando del più e del meno – cioè, lo stavamo facendo via chat, su internet, perché io non parlo, come vi dicevo – e mi è venuta in mente questa cosa, che mi ha fatto sentire discriminato. Perché i non vedenti possono avere un cane guida e io no? Non posso avere un cane che risponda al telefono e che faccia le ordinazioni al ristorante cinese? Il mio amico, che è un amico, mi ha risposto ovviamente di sì, che posso. Cosa te lo impedisce, ha detto. Il fatto che i cani non parlano, me lo impedisce, gli ho risposto. E neanche leggono, perciò io stesso non potrei comunicargli le istruzioni. Perché non me lo procuri tu un cane guida per muti, gli ho chiesto, tu che sei famoso per essere quello che procura le cose: sei un procuratore. Si è fatto una risata (mi ha messo la faccina che ride, quella che si fa digitando LOL) e poi mi ha risposto va bene, ci penso io. Vedrai che ti combino.

Non ci siamo sentiti per un po’, lui è così, è uno di quelli che scompaiono. Da parecchio tempo ho cominciato a classificare le persone in presenti e assenti, poi ci ho aggiunto altre categorie, tipo presenzialisti e assenteisti. Ma quelli con i quali mi trovo meglio sono quelli che ho definito gli houdini, quelli che appaiono e scompaiono, e non sai mai dove e quando. Con Sergi è così, lui è un houdini, ma alla fine riappare sempre. Questa volta ha anche fatto l’entrata ad effetto: si è presentato a casa direttamente, sapendo che non esco quasi mai, e mi ha portato il cane. Non sapete quant’è brutto. Si chiama Say, mi ha detto Sergi quando me l’ha presentato, e poi ha detto di’ ciao, Say. E Say ha detto ciao. Bello, ho pensato, ma non mi riferivo al cane. È tutto nero, spelacchiato e col pelo ispido. Ha una macchia bianca in mezzo al petto e le zampe storte, anche se di questo mi sono accorto poi, perché Sergi lo teneva in braccio, lì, sulla soglia di casa mia. Gli ho fatto cenno di entrare, e Sergi è entrato con lo sgorbio. È piccolo, ma non è cucciolo, ci è voluto un po’ per addestrarlo, mi ha spiegato. Comunque crescerà un altro po’, ma resterà piccolo, non ti preoccupare. Io non ero preoccupato, il cane guida gliel’avevo chiesto io e questo funzionava, a quanto vedevo, anche se mi sarei aspettato qualcosa di più, come dire… maestoso.

Sergi si è fatto servire un bicchiere di whiskey, perché è un vizioso, e mi ha mostrato come Say sia capace di decodificare delle istruzioni scritte. Solo in stampatelllo, però, scritto ben ordinato. Infine, ha estratto il telefonino e ha composto il mio numero, per farmi vedere come Say sappia rispondere al telefono. Ha un bel pronto, profondo; una voce più affascinante di quella che ho avuto io, finché l’ho avuta. Così, Sergi ci ha lasciati soli e mi ha lasciato intendere che avrei potuto in seguito ricambiargli il favore facendogli avere quello che lui ha sempre desiderato e non ha mai potuto permettersi: le mutande autopulenti. Le produce l’azienda per cui lavoro, e posso ottenere delle agevolazioni.

Quando Sergi se n’è andato, Say mi ha guardato con gli occhi imploranti che solo i cani sanno avere e mi ha detto ho fame. Non subito. Mi ha guardato prima per qualche secondo, con le orecchie all’indietro, poi, quando mi sono sentito irrimediabilemnte intenerito nonostante la sua bruttezza, ha pronunicato le due parole. Ho fame. Gli ho dato da mangiare. D’altronde, non so che altro avrei potuto fare. Una volta ottenuto ciò che si è desiderato e chiesto, bisogna farsene carico. È la vita.

Mi sono reso conto di non sapere molto su come si tiene un cane, né avevo chiesto delucidazioni a Sergi. D’altro canto, con Say è più semplice, perché parla. Non avevo cibo per cani in casa, com’è ovvio, così gli ho dato del prosciutto, mi pare l’abbia gradito. Non che me l’abbia detto, eh, di fatto Say è di poche parole, si comporta a tutti gli effetti come se questa cosa del parlare fosse proprio un lavoro, e in quanto tale tende a fare quanto necessario, non una sillaba di più, non una di meno. Ho deciso pertanto di sfruttare subito le mie nuove potenzialità per chiamare il negozio per animali e farmi portare un po’ di cibo in scatola e croccantini. Ho scritto l’ordinazione su un foglietto e ho composto il numero. Say ha fatto la sua parte, senza prendere iniziative. Devo dire che mi aveva sfiorato l’idea che potesse ordinarsi qualcosa di suo gradimento, vedendo che si trattava di cibo per cani, ma non l’ha fatto. Dimenticavo che, in fondo, è sempre un cane. Queste furbizie umane non gli appartengono. Poiché la cosa ha funzionato, ho composto il numero della pizzeria e gli ho fatto ordinare una pizza.

In questi mesi Say è stato molto utile. Lui parla per me in tutte le occaioni in cui la voce si rende necessaria, e io lo ripago con vitto e alloggio. Non si lamenta mai, ma ben presto ho cominciato a notare in lui una certa malinconia. Allora ho pensato che avesse bisogno di compagnia canina, così ho cominciato a portarlo al parco. Gli altri cani gli sono venuti incontro da subito. Loro non fanno i ritrosi e non hanno bisogno di essere presentati da terzi, per fare la conoscenza reciproca. Qualcuno l’ha invitato a giocare, puntando il culo per aria, come fanno i cani. Say questo l’ha capito, ed è corso via con la sua andatura caracollante, dovuta alle zampe storte. A quel punto mi sono reso conto di un fatto: Say non abbaia. Mi pare che possa significare che o parli una lingua o ne parli un’altra. Cioè, o comunichi in cagnesco o in umano.

Però un giorno, mentre guardavo Say giocare col botolo tricolore della signora Marquez, ho notato che si muoveva esattamente come un cane. La comunicazione non verbale ce l’aveva tutta, insomma, l’aveva conservata intatta, a quattro zampe, per così dire. Così ho cominciato a guardarmi intorno. La signora Marquez ignorava completamente il suo sgorbio peloso – che stava intanto cercando di montare Say – e parlava con il panettiere che mi fa consegnare i cornetti a domicilio, da quando c’è Say che me li ordina. Lui non ha un cane, viene al parco a correre la domenica mattina, lasciando la moglie al negozio alle prese con la folla dei giorni festivi. La signora Marquez si aggiustava i capelli e Raul, il panettiere, si lisciava i baffi mentre buttava uno sguardo ogni tre secondi alla scollatura della suddetta. Erano tutti e due protesi in avanti, lei con la testa piegata da un lato, lui che ogni tanto si umettava le labbra con la punta della lingua. Intanto, Say aveva preso l’altro cane per un orecchio ed era riuscito a liberarsi dalla sua morsa. Quell’altro coso peloso non mi ispira simpatia, forse perché non me ne ispira la sua padrona, ma per richiamare Say avrei dovuto dire a Say di richiamarsi, perché io non ho voce, e questo mi sembrava un po’ difficile. Ho pensato allora per la prima volta di dover comprare un fischietto per cani, poi ho provato a fare semplicemente un po’ di rumore col guinzaglio contro la panchina. Say mi ha guardato e poi si è girato dall’altro lato. Anche questo è molto canino, una persona mi avrebbe fatto un cenno con la testa, o avrebbe stretto gli occhi. La signora Marquez e Raul il panettiere stavano continuando la loro pantomima. La tuta di Raul era un po’ gonfia in vita, ma anche le spalle e le braccia ne tendevano il tessuto. All’improvviso, però, la signora si è tirata indietro, le braccia rigide lungo i fianchi. Dall’angolo era sbucato il marito. Raul aveva smesso di toccarsi i baffi e si era portato le braccia dietro la schiena, stringendo una mano nell’altra, come un don Abbondio che passeggia col suo breviario. Ne ho dedotto che abbiamo conservato tutto il repertorio di comunicazione non verbale che ci serve, e che i nostri piccoli cervellini altezzosi non hanno ancora imparato ad ignorarlo, per quanto forte cerchiamo di parlarci sopra.

Ho fatto di nuovo un po’ di rumore col guinzaglio. Say stavolta non si è limitato a girarsi, mi ha guardato con lo sguardo da cane e ha pronunciato un sommesso no, dai. L’altro cane ha inclinato la testa prima da un lato, poi dall’altro, drizzando le orecchie. Aveva sentito qualcosa che non andava. Ha fatto due passi indietro, poi ha colto la palla al balzo quando la sua padrona lo ha richiamato. Ho spostato lo sguardo su di lei. A quel punto, al suo fianco aveva il marito, un uomo grassoccio semicalvo e con il sorriso gioviale. Lei non si toccava più i capelli. Raul stava corricchiando via, facendo ballonzolare la pancia e anche la zazzera grigia che si porta dietro. Say si era seduto e sbuffava col naso. Mi guardava rassegnato. Aveva lo sguardo di quello che vorrebbe fare lo sciopero del silenzio, ma parlare è il suo compito, e io so che questi dispetti da uomo non fanno per lui.

Allora ho preso una decisone risoluta. Senza darmi il tempo di pensarci una seconda volta, ho preso Say in braccio e sono saltato sul pullman all’esterno del parco. Sono passato in ufficio. La domenica è chiuso ma io ho le chiavi. Ho arraffato qualche campione omaggio di calzini profumati e di camicie con la canottiera incorporata da portare a Sergi, a cui è già passata la passione per le mutande autopulenti, almeno da quando frequenta una donna che aderisce al movimento NO INTIMO.

Stavolta sono stato io l’houdini. Ho bussato alla porta di Sergi, gli ho consegnato i regali e gli ho indicato Say, che, istruito a dovere, ha pronunciato in mia vece togligli la parola, voglio che abbai. Sergi mi ha guardato perplesso, le sopracciglia inarcate. Poi però ha fatto cenno di sì con la testa. Per scrupolo mi ha chiesto sei sicuro? Io ho stretto le spalle, ed è stato sufficiente così. Un po’ me l’aspettavo, che prima o poi me l’avresti riportato, mi ha detto. Ti basterà che abbai? Sì certo, ha risposto Say per me e per se stesso, senza bisogno di istruzioni.

Così ce ne siamo tornati a casa. Un uomo senza parole e il suo cane. La migliore coppia di comunicatori che abbiate mai visto, in verità. Non sono sarcastico, credete a me. Lo penso davvero.

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18 risposte a Cane guida per muti (storia minima)

  1. labloggastorie ha detto:

    Splendido, mi ha lasciato senza parole.
    Un abbraccio

  2. ladykhorakhane ha detto:

    Questo racconto è meraviglioso! 🙂

  3. poetella ha detto:

    Bau!
    bau!bau!bau!

  4. newwhitebear ha detto:

    Ironico, geniale e tanto umano, compreso Say. Veramente una splendida chicca pasquale. Un miniracconto (non tanto mini) che mi ha fatto divertire e sorridere. L’uomo senza parola alla fine preferisce un cane senza parola. Veramente sorprendente è il finale.

    • swann matassa ha detto:

      mi fa piacere che tu lo abbia gradito. e hai ragione sull’umanità di Say, il finale l’ho pensato proprio per essere clemente con lui, ed estirpargli quella parte di umanità che gli faceva del male. magari la si potesse estirpare anche da noi, per restituirci ad una natura meno perversa.

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