La normalità era il problema

“Non torneremo alla normalità perché la normalità era il problema”. Comincia a girare questa frase. C’è, in essa, tutta la verità della semplicità, della nostra vita in un guscio di noce. Tutte le fragilità del nostro sistema sociale, tutte le tossicità del nostro tempo sono messe a nudo da un virus. Dove non sono arrivati filosofi, scienziati e pensatori, è arrivato un ammasso di macromolecole che giace in bilico sul confine del concetto stesso di vita. Non è lusinghiero, dover prendere lezioni da quello, ma le lezioni si imparano, non si rifiutano. Se saremo in grado di farlo, molto altro verrà da sé. Perché se ci siamo accorti che “il problema era la normalità”, non potremo non prendere atto che c’è troppo, ancora, da cambiare. La storia dirà se saremo ancora in grado di sbagliare direzione, perché il modo in cui stiamo affrontando l’emergenza suona proprio quel campanello d’allarme: possiamo decidere di andare ancora più alla deriva, di rispondere ai contagi con più distanza, invece che con più aiuto, di rispondere alle difficoltà con più egoismo, invece che con più collaborazione, di rispondere al disequilibrio della natura con più aggressività nei suoi confronti, invece che provando a ristabilirne l’equilibrio (quanto manca prima che qualcuno si faccia venire in mente di sterminare i pipistrelli, per prevenire le zoonosi?).

Perché ci sono molte lezioni positive che ci sta impartendo il virus, ma ci sono anche lezioni negative.

Le lezioni positive del coronavirus

Abbiamo imparato che la riduzione delle emissioni è possibile, che si possono rallentare i ritmi produttivi, che di fronte a un’emergenza si possono prendere provvedimenti drastici, subito, e “appiattire le curve”. Abbiamo imparato che se facciamo meno rumore i delfini tornano nei nostri golfi (https://www.peopleforplanet.it/pesci-a-venezia-e-delfini-a-cagliari-la-natura-non-e-in-quarantena-anzi/), che l’aria si fa più pulita (https://earthobservatory.nasa.gov/images/146362/airborne-nitrogen-dioxide-plummets-over-china) e che non siamo obbligati ad andare sempre a mille all’ora. Che possiamo restare a casa, una sera, leggere un libro, cucinarci la pizza da soli; che possiamo evitare di metterci in fila e, se dobbiamo, possiamo farlo senza saltarci addosso. Potremmo aver imparato che alcuni lavori si possono fare da casa, evitando pendolarismo esasperato, che si può coinvolgere chi è costretto a casa o chi è lontano con la didattica a distanza, che il sistema sanitario pubblico è un bene prezioso, da difendere, coltivare, migliorare. Ci è stato anche mostrato che bisogna essere lungimiranti nella programmazione della gestione delle crisi, che bisogna avere il coraggio delle scelte e farle sulla base di competenze, di consultazioni fra più discipline, ma anche che questi processi decisionali devono essere trasparenti, devono coinvolgere i cittadini invece che calar loro sul capo, che possono e devono essere comunicati con serietà, pacatezza, ragionevolezza, per rendere tutti partecipi, per generare senso di comunità attraverso il pensiero critico e l’empatia, piuttosto che lo sventolamento di bandiere – che cambieranno direzione quando cambierà il vento. Così è necessaria la condivisione dei dati e dei processi scientifici, della loro democraticità, della loro complessità e della loro fondamentale non-verità: un procedimento in divenire che accumula evidenze e fa convergere ipotesi e opinioni verso un accordo di lungo termine, ma di lunga durata, solo attraverso l’errore e la confutazione, la messa in discussione, l’accumulo di dati e il tempo. Il tempo. Il tempo però può essere accorciato, nei processi decisionali, nella condivisione dei dati scientifici, nel processo editoriale. Se si vuole, si può.

Abbiamo visto con i nostri occhi che le nostre decisioni influenzano altri, e non dall’altra parte del globo, tipo effetto farfalla, ma qui accanto, il nostro vicino, il collega di lavoro, quello in fila dietro di noi dal panettiere, che magari ci sta sulle scatole perché cerca di passarci avanti alla cassa, ma insomma, non sarà tutta lì, la sua vita. Abbiamo visto, anche, che siamo troppi, troppo concentrati. Quando proviamo a mantenere le distanze, ad avere uno spazio, troviamo che non ce n’è abbastanza, che il mondo è finito. Troviamo che dobbiamo rinunciare a qualcosa, per fare spazio. Ma se ognuno si fa da parte dove può, nessuno si fa male; nulla è irrinunciabile.

Ci è venuto almeno il dubbio che l’inquinamento uccida: lo sapevamo già, ma adesso c’è gente che, nelle zone con più elevata concentrazione di polveri sottili nell’atmosfera, muore con un ritmo molto maggiore che nel resto d’Italia, e c’è quantomeno la possibilità concreta che la correlazione sia alta.

La lezione negativa

In queste settimane, non sono state solo le fragilità del nostro sistema sociale a essere state messe a nudo, ma anche le nostre. Abbiamo visto quanto facilmente ci facciamo prendere dal panico, quanto prontamente crediamo a quello che ci viene detto, senza verifiche e intermediazioni, quanto siamo vittime dell’euristica, dell’esperienza personale, del mondo piccolo che ci circonda, della narrazione, delle nostre bolle social. La maggior parte di noi ha radicato un sé un senso profondo delle gerarchie, vuole sempre che qualcuno prenda in mano la situazione per conto di tutti e la risolva; vogliamo che altri prendano provvedimenti per noi, che li facciano rispettare con la forza. Capire è faticoso, partecipare al processo decisionale è rischioso, non ci interessa essere parte, ma solo sentirci dire che tutto andrà bene, come da piccoli. Solo che chi prende le decisioni adesso non lo fa rimboccandoci le coperte, per amore, ma per milioni di altri motivi; lo abbiamo visto accadere, ancora e ancora, ma abbiamo memoria corta, basta una posa forte e ci dimentichiamo di quello che poteva essere fatto e non è stato fatto, ci piacciono i vessili, le divise e l’autoelogio, e non sappiamo guardare ad altri modelli, più complessi, che richiedono più impegno. Non è richiesto impegno nel chiedere solo che ad altri sia imposto quello che noi vogliamo, o almeno quello che è stato imposto a noi e che – poiché ci è stato imposto – ci siamo convinti che era quello che volevamo, o di cui avevamo bisogno. Pensiamo di non essere in grado di partecipare, come comunità, che il prossimo non abbia abbastanza giudizio, che l’insegnamento non serva a nulla, che homo homini lupus, che quello che ferma il male sono solo le barriere e il respingimento.

L’invito ad ascoltare chi ha competenze non è un invito al silenzio (non dovrebbe): è un invito a studiare, a ragionare, a pronunciarsi quando si è maturata una conoscenza, a inseguirla; anche – perché no – a stimolare chi possiede quella conoscenza e quella competenza a diffonderla, a metterla a frutto, a provare a trasformarla in azione. Perché studiare per capire significa anzitutto capire la vastità di quello che non si conosce ancora, cercare supporto in chi ne sa di più, inseguirlo su quel terreno.

Per come siamo oggi, per l’idea che abbiamo di noi stessi e di noi stessi fra gli altri, siamo destinati al distanziamento: anche questo ci ha insegnato l’epidemia. Siamo tutti virus che camminano, ed è peggio che lupi, perché i lupi agiscono in gruppo, sono sociali. Ma vivere insieme, accettare di essere nodi di una rete, significa accettare la paura, accogliere il dolore. Di fronte a un pericolo, ci ricordiamo all’improvviso della morte, come se non sapessimo che cammina al nostro fianco da sempre; il pericolo immediato rimuove la nostra rimozione, e non è un male di per sé, ma è un male che il resto del tempo ci comportiamo come se fossimo eterni, noi e la natura: non accettiamo il dolore. Rilke ha scritto (ho imparato anche questo, in questi giorni) “Lascia che tutto ti accada, bellezza e terrore. Vai sempre avanti, nessun sentimento è definitivo”. Il virus dice lo stesso: lo stiamo ascoltando?

Ma no, almeno non ora. Oggi siamo in cerca di un capro espiatorio, e il peggio è che lo cerchiamo vicino a noi: siamo connessi col mondo, ma ancora cerchiamo il colpevole all’angolo di strada, nel vicino che non indossa la mascherina, nel corridore solitario che non rinuncia all’allenamento, persino nell’anziano che per alleviare la solitudine scende ogni giorno a fare la spesa. Perdiamo le prospettive, non sappiamo guardare più in là della nostra cerchia più stretta, di quello che ci accade sotto il naso. Se lo facciamo, se ci proviamo, siamo irrispettosi. Ma la conoscenza è rispetto, il pensiero critico è azione, l’analisi è soluzione. Se mettiamo ordine, non mettiamo distanza: cerchiamo posto. È l’alternativa alla retorica, che incontra i sentimenti solo all’apparenza, che scambia la forma per il contenuto, che piace tanto ai nostri politici, ai nostri media, a noi. Perché ci preoccupiamo solo del problema più prossimo, di quello più vicino, e questo ha senso, finché scappiamo, ma poi il fiato ci manca, bisogna fermarsi, e per trovare un rifugio adeguato ci tocca pensare.

Cosa ci serve

Come possiamo affrontare i problemi comuni? Come possiamo migliorare il nostro vivere civile, ritrovare l’equilibrio con le risorse naturali, affrontare i cambiamenti che la storia ci impone inevitabilmente? Una consapevolezza evoluta del percorso. Non è necessario negare che possano esistere delle priorità, ma bisogna giocare su più fronti. Lo studio e la ricerca ci servono per conoscere, per sapere quello che c’è da affrontare e come. Forse adesso è più chiaro a tutti il perché è necessario esplorare il reale, ma anche che tutti devono essere consapevoli della natura in divenire e non statica del sapere. Abbiamo bisogno di smetterla di polarizzare, di affidarci alle “narrazioni”: che il dibattito pubblico sia come il processo di conoscenza scientifica: un processo democratico di accumulo di conoscenza, discussione e raggiungimento dell’accordo (accordo: non consenso), attraverso la crescita comune, la presa d’atto, senza repressione del dissenso, ma per accumulo, attraverso l’analisi della realtà.

Abbiamo bisogno del dubbio, della complessità: non si risolvono i problemi vendendo le soluzioni disponibili come le uniche possibili. A mesi dall’inizio dell’epidemia, la verità è che non sappiamo davvero neanche quanto i lockdown siano necessari e/o insostituibili. Il primo dei provvedimenti adottati, la chiusura delle scuole, da sola, è di dubbia efficacia (https://www.washingtonpost.com/local/education/states-are-rushing-to-close-schools-but-what-does-the-science-on-closures-say/2020/03/16/2cbb64da-6799-11ea-b313-df458622c2cc_story.html?utm_campaign=e09b649635-briefing-dy-20200317&utm_medium=email&utm_source=Nature%20Briefing ).

Ci hanno indotto a pensare, per giorni, che la colpa della diffusione del virus, del fallimento del contenimento fossero i runners, i passeggiatori solitari, i cittadini annoiati che vanno alla coop ogni giorno. E intanto nel centro produttivo del paese le fabbriche lavoravano a pieno regime, i pendolari riempivano i mezzi pubblici, le cui corse erano state tagliate dagli amministratori, sovraffollandoli (https://medium.com/@tonyscalari/bergamo-is-running-quando-il-contagio-era-una-sensazione-ingannevole-9b2bd0f3320e). L’analisi delle celle telefoniche, messa in campo e data in pasto al pubblico per dimostrare che “c’è ancora troppa gente in giro”, intanto dimostrava che i movimenti si riducevano drasticamente nei weekend, confermando che sono in realtà gli spostamenti per lavoro, a motivare il movimento, e che in realtà i cittadini hanno risposto con responsabilità alla richiesta di distanziamento sociale. Ma mentre i social (e i balconi) si riempivano di moralizzatori, e mentre si cantava l’inno nazionale e si diceva “uniti ce la faremo”, le sentinelle additavano i trasgressori, chiamavano la polizia, invocavano denunce, pene, gambizzazioni e esercito, e l’esercito è presto arrivato (https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/03/vendicatori-in-divisa-coronavirus/?fbclid=IwAR2fmMKtx-ONwCH_WJvv2INi9J-YxxguoCVru3qTJY6yiDMU7w1d4lSuxvc#more-42460).

Io credo che un solo diritto dobbiamo mai smettere di reclamare: la possibilità di autodeterminazione. La privazione della libertà è la più aberrante delle aggressioni e se lasciamo che prevalga la voglia di limitare la possibilità di movimento e d’azione del nostro prossimo, perché vi vediamo un serbatoio di virus, trasmettiamo ai nostri figli l’idea che l’unica cosa che conta è la preservazione del sé, oggi, e renderemmo vano qualunque altro insegnamento che possa essere veicolato insieme a quello. Invocando l’esercito, pene più severe, il deserto nelle strade, l’ablazione di tutto quello che è umano – di tutto quello che è NATURALMENTE umano, non ci proteggiamo da un’epidemia, cadiamo solo preda di una peggiore. Gli ospedali, dove gli operatori sanitari sono stati costretti al superlavoro senza equipaggiamenti adeguati, sono diventati i siti principali di diffusione dell’infezione, ma invece di concentrarsi sulle dotazioni agli ospedali, o di riaprire e riattrezzare le strutture chiuse o depotenziate negli ultimi anni (a Napoli, il San Gennaro, gli Incurabili), De Luca ha invocato l’esercito per stanare i passeggiatori e i runner, e i lanciafiamme per incenerire gli irresponsabili. Molto hanno riso delle sue performance, sono nati fan club, non ho dubbi che la vicenda gli frutterà una riserva del beneamato “consenso politico”.

“In questo momento ci sono due epidemie, una delle quali – l’epidemia dell’autoritarismo, del securitarismo, del controllo ossessivo – si estende col pretesto di affrontare l’altra.” (Wu Ming 1).

Abbiamo bisogno di restringere la libertà personale o allargarla? Per essere compatti bisogna avere un uomo solo al comando o essere consapevoli di un obiettivo comune? So per certo qual è la risposta dei più, quella più ovvia. Ne ho avuto molte prove in questi giorni. Le cosiddette “forze dell’ordine” sono in deliquio, adesso possono urlare per strada “io sono lo stato” senza ricevere pernacchi e sberleffi. In Campania il presidente di regione Vincenzo De Luca ha chiesto e ottenuto l’intervento dell’esercito. Nel frattempo la Campania si collocava ultima nell’elenco di regioni per test effettuati, proprio mentre l’OMS invitava i paesi a effettuare più test possibili. Quindi non più test, più respiratori, più posti letto in ospedale, più mascherine per gli operatori sanitari, ma più soldati in strada.

D’altronde “siamo in guerra”, i medici sono “in trincea” e quella contro il coronavirus è una quotidiana “battaglia”. A sentire alcuni, però, il nemico non è il virus, ma il vicino. A Cagliari, il sindaco ha fatto installare dei manifesti, per strada, in cui le morti per coronavirus sono imputate alle corse, alle passeggiate, alle uscite per fare la spesa (https://www.vistanet.it/cagliari/2020/03/25/cagliari-polemica-per-la-campagna-promossa-dal-comune-contro-il-covid-19-clima-di-terrore/). Al 24 marzo, nella città metropolitana di Cagliari, 64 contagiati (!). Sarebbe legittimo chiedersi cosa spinge gli amministratori a fare questo. Sarebbe legittimo dubitare che lo facciano per rafforzare la propria posizione di potere, per legittimare la forza, la repressione, facendo leva sulla paura, in modo peraltro incongruo, perché non ha alcun senso vietare le uscite solitarie, nel rispetto della distanza di sicurezza, in un territorio in cui il contagio è sotto controllo, al prezzo di generare sospetto e ostilità fra i cittadini. L’unico senso è giustificare provvedimenti autoritari.

Molti si chiedono, infatti, se fosse necessario mettere in quarantena l’intera nazione, e non fosse invece possibile diversificare le strategie sul territorio. Certo questo non avrebbe giustificato lo schieramento dell’esercito. Di fronte a un’emergenza nazionale invece ci si può spingere a dire che “non è il momento di scioperare” e, più in generale, che non è il momento di polemizzare. Se fischiano le bombe, il dissenso è seppellito dal loro frastuono. Ma se non è il momento di dissentire quando veniamo messi gli uni contro gli altri, quando viene schierato l’esercito per privarci anche dell’ora d’aria, quando le forze dell’ordine sono autorizzate a multarci e denunciarci per aver deviato dal percorso, per esserci seduti su una panchina a respirare, per aver portato il cane a pisciare, quando mai potremo farlo?

Se non ora, quando?

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12 risposte a La normalità era il problema

  1. bortocal15 ha detto:

    mi hai lasciato a bocca aperta: bellissimo e lucidissimo.

    lo ribloggo…

  2. bortocal15 ha detto:

    L’ha ripubblicato su cor-pus 15e ha commentato:
    ribloggo questo lucido intervento dal blog ilbandolodelmatassa

  3. zariele ha detto:

    Se durerà ancora solo qualche settimana – cosa che mi auguro – torneremo alla normalità, con quasi tutti i suoi “contro” (cosa che non mi auguro). Se dovesse durare qualche mese, estate compresa, probabilmente non torneremo alla normalità. Pessimismo?

    • swann matassa ha detto:

      non sono sicuro che, anche se le misure di contenimento terminassero oggi, non ci sarebbero strascichi. Io penso che l’onda lunga dell’emergenza si farà sentire in molti ambiti

      • zariele ha detto:

        E’ dall’inizio della clausura che io e la mia compagna, di tanto in tanto,
        ci facciamo questa domanda. Non ci siamo ancora dati una risposta.
        E forse non ce la daremo mai.
        Dirò soltanto – so che la cosa non mi fa onore – che da qualche anno, specie quando ho un calo glicemico, mi è venuto da pensare: ci vorrebbe proprio una bella guerra! Ma forse perché ho avuto la fortuna di non averla vissuta. Abbi cura di te. E degli altri. Buona giornata. Per quanto possibile. Presto, o meno presto, ne usciremo.

  4. newwhitebear ha detto:

    Scrivi
    Ci è venuto almeno il dubbio che l’inquinamento uccida: lo sapevamo già, ma adesso c’è gente che, nelle zone con più elevata concentrazione di polveri sottili nell’atmosfera, muore con un ritmo molto maggiore che nel resto d’Italia, e c’è quantomeno la possibilità concreta che la correlazione sia alta.
    Non sono molto d’accordo su questo, perché questa correlazione è falsata da qualcuno che finge di conoscere le evidenza. Ci sono posti, ne cito uno Ferrara dove abito, dove i contagi sono bassi appena 200 a ieri e i morti 14, sempre ieri, in compenso nei primi due mesi si è mangiato tutti i bonus per le polveri sottili ovvero ha sforato oltre 35 su 60 giorni. E non è un caso, perché in Emilia è tra le città con maggior inquinamento di polveri sottili. E ricordo che di industrie ce ne sono pochine. Dunque chi ha fatto quella correlazione ha preso dei dati parziali solo per dimostrare la sua tesi. Che d’inquinamento si muore è assodato ma lasciamo in pace il coranavirus, che fa strage di ultraottantenni. Sono arrivati a quell’età vivendo in un altro mondo? Se i morti fossero persone giovani potrei crederci viceversa mi sembra rimestare nel fango, facendo i finti ambientalisti.

    • swann matassa ha detto:

      mmmm, però 14 morti su 200 contagiati fa 7% di mortalità, è tutt’altro che bassa. Ora, naturalmente su numeri così piccoli ragionare sulle percentuali serve a poco, e poi la mortalità calcolata così sappiamo che è grossolana, però prima di dire che non c’è correlazione aspetterei: la Lombardia ha la mortalità da coronavirus più alta del mondo, al momento, e l’ipotesi dell’inquinamento atmosferico, per spiegarla, è una delle più accreditabili. Quale che sia il risultato delle indagini successive, tuttavia, non dubito che la spiegazione sarà multifattoriale e tutt’altro che semplicistica

      • newwhitebear ha detto:

        Le percentuali? Facciamole alla fine con numeri stabili e sicuri.
        Per quanto riguarda la Lombardia i morti sono troppi ma perché le strutture sono collassate. Quello che ha dichiarato Gori, sindaco di Bergamo, nonostante la retromarcia, è la spia della situazione.
        Quello che deve essere calcolato è per fasce di età ma senza barrare. Ovvero non fare degli accorpamenti grossolani. Ad esempio non accorpare la fascia dei settanta con quella degli ottanta.
        Se uno arriva a 88 anni e poi muore per il corona, non c’è inquinamento che tenga. L’inquinamento non c’entra per nulla.
        Comunque il discorso sarebbe lungo e controvveso. Se voglio puntellare una mia tesi posso fare alchimie coi numeri affinché mi diano ragione.

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