Una tana per essere al sicuro mai

Qualche giorno fa ho letto per la prima volta il racconto di Kafka “la tana”. È stato come guardare una radiografia: aprire una finestra su come siamo fatti dentro. È stato, anche, come leggere una profezia, a vederlo dalla distanza di circa un secolo e alcune pandemie; dalla distanza della nostra ricerca di una salvezza.

Mi ricordo da bambino: poche sensazioni erano più piacevoli dello stare a caldo, d’inverno, mentre fuori imperversava una tempesta; più tuonava, più era dolce il bicchiere di latte caldo sul comodino, più fischiava il vento, più era attraente la tenue luce della mia piccola stanza. Posso solo immaginare la soddisfazione di averlo costruito da sé, quel rifugio, e l’idea che non ci sia niente, al di fuori, che meriti di abbandonarlo. “La tua casa è protetta, chiusa in sé, tu vivi in pace, al caldo, ben nutrito, sovrano, unico sovrano su una gran quantità di gallerie e piazzole; non vorrai, è sperabile, sacrificare tutto questo e, per così dire, rinunciare a tutto questo? Certo hai la fiducia di riappropriartene di nuovo, ma vuoi davvero metterti a giocare un gioco rischioso, così rischioso? Hai per questo motivi ragionevoli? No, non ci sono motivi ragionevoli per cose del genere.”

Però la vita è di fuori, puoi scavare gallerie profondissime, ma per nutrirti hai bisogno di uscire, se non vuoi adattarti a mangiare i vermi. E i vermi non hanno la stessa poesia del bicchiere di latte caldo sul comodino, vero? Uscire diventa un dilemma. Quando sei uscito, ti accorgi di quello che ti mancava, di quello di cui ti stavi privando (“non mi nascondo più nelle gallerie, vado a caccia nel bosco aperto, sento nel corpo nuove forze, per le quali nella tana, in un certo senso, non c’è spazio”). La sicurezza toglie sempre qualcosa; no, la sicurezza toglie molto, perché la vita non è fatta a blocchi, e nell’evitare i pericoli si evitano le gioie, l’elisione dei rischi comporta l’elisione della soddisfazione del successo. Quando abbiamo costruito la tana, abbiamo rischiato; la soddisfazione del risultato deriva dai pericoli che abbiamo corso e sconfitto, oltre che dalla maestria della costruzione. La sicurezza che abbiamo acquisito è una novità confortevole, ma presto dimentichiamo che per acquisire la prossima novità confortevole dovremo tornare a rischiare: dovremo tornare a vivere.

Eppure, adesso che abbiamo una tana, quei rischi non ci sembrano più accettabili. Una volta erano la realtà, adesso sono una scelta. Per un attimo ci sembra una scelta sofferta, eppure no: che pazzia! Perché rischiare? “Sto maturando la decisione di andarmene lontano, di riprendere la vecchia vita desolata, senza certezze, un’unica ininterrotta sequenza di pericoli, che non consentiva di distinguere chiaramente e di temere un singolo pericolo, come continuamente mi mostra il confronto tra la mia vita nella tana e la vita altrove. Certo, una tale risoluzione sarebbe una vera pazzia, scaturita dall’aver visto troppo a lungo in una insensata libertà; la tana mi appartiene ancora, non devo fare che un passo e sono al sicuro.”

E così abbiamo già ceduto, abbiamo già deciso che la vita, in un mondo di tane, deve essere vissuta al sicuro. Che il nostro destino è la cura, la protezione, il calore, le sicurezze, lo zelo, il calcolo delle probabilità. A quel punto ogni cosa richiede un piano d’azione, una mitigazione del rischio. Quando siamo fuori per mangiare, e abbiamo realizzato che è una pazzia, che quel vento sul viso non vale la nostra quiete, che l’eccitazione della caccia non può competere con la rassicurante pila delle nostre provviste, che la libertà è insensata, allora ci rendiamo conto che anche rientrare è un rischio, che qualcuno ci vedrà, che scoprirà dove siamo nascosti, che verrà a prenderci. Abbiamo bisogno che qualcun altro sorvegli il sentiero per noi, mentre lo percorriamo.

“Avessi almeno qualcuno di cui potermi fidare, potrei farlo mettere al mio posto di osservazione e discendere in pace.”

Ma chi sorveglia il sorvegliante? Ah, non c’è pace! “È relativamente facile aver fiducia in qualcuno se allo stesso tempo lo si sorveglia o almeno si ha la possibilità di farlo; forse si può anche aver fiducia di qualcuno da lontano ma, all’interno della tana, dunque da un altro mondo, aver fiducia in uno che sta fuori credo che sia impossibile. […] Posso fidarmi solo di me e della tana.”

Possiamo fidarci solo della tana. Da “la vita è altrove” siamo passati a “non c’è vita se non qui, tutto il resto è follia”. Non ha più senso ragionare in termini di fuori e dentro, il fuori deve essere evitato: non c’è più sole che tenga, non c’è profumo, non c’è libertà che tenga: da una accurata valutazione del sé deriva la conservazione del sé, ed è tutto quello che conta. “Quello sgattaiolare fuori e dentro, senza alcun impedimento, che cosa significherebbe? Farebbe pensare a uno spirito inquieto, ad una incerta valutazione di sé stessi, a loschi desideri, a cattive qualità che diventano ancora più cattive al cospetto della tana, che sta lì e può offrire la pace, purché ci si abbandoni completamente ad essa.”

Dove la libertà è insensata, i desideri sono loschi. La logica della tana è questa: solo il rifugio è sicuro, solo la sicurezza è rifugio. Dobbiamo abbandonarci alla tana. Completamente.

Ma è davvero così?

“Quando mi immagino di stare in mezzo a un pericolo, voglio a denti stretti e con tutta la forza di volontà che la tana non sia altro se non la fossa destinata a salvarmi la vita e che assolve al compito assegnatole con la massima perfezione possibile. […] Ora però il fatto è che la tana in realtà – e ne momenti di emergenza non vi si bada, invece bisogna badarvi anche nei momenti di pericolo -dà certo molta sicurezza, ma non abbastanza la fa cessare una volta per tutte le preoccupazioni.”

Troppo tardi, però. Ormai noi e la tana ci apparteniamo, alla vita chiediamo certezze, l’imponderabile non è più un’opzione, neanche remota. Non si tratta più di costruire un argine alle nostre paure, di concepire il modo per affrontarle, per non lasciarci sopraffare. La paura è scontata, non c’è più alcuno scampo da lei: la tana ci ha rivelato la vera essenza della vita, la sua crudeltà, l’insensatezza del vivere. Ormai noi siamo la tana. Fuori non è un luogo, è la negazione di noi. “Io e la tana ci apparteniamo a tal punto che potrei installarmi qui tranquillamente, tranquillamente nonostante tutte le mie paure.”

Le paure, ecco, quelle non si possono più vincere. Perché la tana non ci difende dalle paure. Le paure sono dentro di noi, e quindi sono anche nella tana. Che addirittura le amplifichi? Che strano pensiero. Eppure… “Potrei benissimo soffocare nelle mie stesse provviste; alcune volte solo divorando e bevendo mi salvo dalla loro morsa.”

Le nostre precauzioni ci uccidono, perché sono più pesanti di noi. La tana si piega sotto la mole dei nostri bisogni. E non cambia il fatto che non siamo soli.

“Sta solo avvenendo qualcosa che avrei dovuto sempre temere, contro cui avrei dovuto sempre prendere delle misure: qualcuno si avvicina!” E allora “che senso ha avuto essere stato tanto a lungo tranquillo per essere poi ora tanto spaventato? Che cos’erano, in confronto a questo, tutti quei piccoli pericoli a pensare ai quali ho dedicato tanto tempo! […] La felicità della proprietà mi ha abituato male, la fragilità della costruzione mi ha reso sensibile le sue ferite mi fanno soffrire come se fossero mie. Avrei dovuto prevederlo, non pensare solo alla mia difesa – e con quanta leggerezza e inconcludenza ho fatto persino questo! – ma anche alla difesa della tana.”

È così facile essere arrivati qui, non è vero? Se noi e la tana siamo ormai una cosa sola, se la libertà è insensata, se i desideri sono loschi, se la vita va vissuta nella nostra tana, con tutte le nostre paure, che non possiamo vincere, angosciati dai pericoli, che continueranno a incombere, con le minacce alla tana stessa, che vengono da fuori e persino da dentro di essa, cos’altro possiamo fare, se non proteggere la tana? Se non trovare una tana alla nostra tana? Se non imbozzolarci, chiedere certezze a un mondo che non ne ha, tendere l’orecchio dove non esiste il silenzio e, infine, rallentare i battiti del nostro cuore per non sussultare al suono di quel tamburo?

Il vero senso del racconto – mi pare – Kafka l’ha piazzato all’inizio, lì, sotto gli occhi di tutti, l’ha celato dove le cose sono meglio nascoste: alla luce del sole. Tutta la riflessione successiva è un lungo percorso circolare per ritornare a quello. “Proprio la prudenza esige, purtroppo spesso, il rischio della vita”.

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Sfoghi del giorno

1) Titoli di giornali internazionali riferiti alla Svezia: “Un vasto esperimento sociale”; “Un suicidio”; “Un incubo auto-inflitto”; “Tragedia”. Pensate siano stati scritti in questi giorni in riferimento al dibattito sulla strategia svedese anti-COVID? No, sono titoli del 2015, riferiti alla politica svedese di accoglienza nei confronti dei rifugiati siriani. Morale: chi canta fuori dal coro è un pazzo suicida e possibilmente anche omicida.

2) Nientemeno che ad Harvard, c’è qualcuno che pensa (e scrive compiaciuto, convinto, contento su The Atlantic) che “Nel grande dibattito degli ultimi vent’anni sulla libertà opposta al controllo della rete, la Cina aveva ampiamente ragione e gli Stati Uniti avevano torto. Un significativo monitoraggio e controllo della parola sono componenti inevitabili di una Internet matura e fiorente, e i governi devono svolgere un ruolo importante in queste pratiche per garantire che Internet sia compatibile con le norme e i valori di una società. […] La risposta alla COVID-19 si fonda su tutte queste tendenze e mostra come la maestria tecnica, la centralizzazione dei dati e la collaborazione pubblico-privato possano apportare un enorme beneficio pubblico. […] Continueremo a optare per la sorveglianza digitale privata a causa dei vantaggi e delle comodità che ne derivano. […] COVID-19 è una finestra su queste future lotte. Al momento, gli attivisti stanno facendo pressioni su Google e Apple affinché introducano maggiori misure di tutela della privacy nel loro programma di tracciamento dei contatti. Tuttavia, il commentatore legale Stewart Baker ha sostenuto che le aziende sono troppo protettive, che gli accordi esistenti in materia di privacy produrranno ‘un quadro che solleva troppi ostacoli per poter tracciare efficacemente le infezioni’. Persino alcuni governi europei ordinariamente amanti della privacy sembrano concordare per la necessità di allentare le restrizioni per motivi di salute pubblica”. (Avete letto bene: ‘amanti della privacy’. Che strano vezzo!). Morale: se qualcuno ha dubbi sul fatto che siano in corso prove tecniche di regime di controllo globale, secondo me li può derubricare.

3) In Italia abbiamo visto i quotidiani scagliarsi violentemente prima contro la politica inglese (salvo poi lodare il dietro-front), poi quella olandese, e infine quella svedese. Solo noi eravamo quelli bravi, quelli che difendono la vita senza indugio, con sprezzo dell’economia. Ma la vita non è né fatta solo di PIL, né di contagio zero. Non siamo né serbatoi ambulanti di virus né macchine per la produzione e il consumo. C’è da chiedersi se vale la pena di non vivere per non ammalarsi, per sopravvivere. Morale: “Che tu sia più [in linea con l’epidemiologo e consulente svedese] Giesecke o [con il modellista dell’Imperial College] Ferguson, è tempo di smettere di fingere che la nostra risposta a questa minaccia sia semplicemente una domanda scientifica, o anche una facile scelta morale tra giusto e sbagliato. È una questione di che tipo di mondo vogliamo vivere e a quale costo”.

Fonti:
https://medium.com/…/want-to-discuss-sweden-and-covid19-sta…
https://www.theatlantic.com/…/what-covid-revealed-…/610549/…
https://unherd.com/…/04/which-epidemiologist-do-you-believe/

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David Cayley, domande sull’attuale pandemia dal punto di vista di Ivan Illich

Oggi riporto la traduzione (fatta da me, spero scuserete eventuali imperfezioni e mi segnalerete correzioni) di questo articolo – o piuttosto mini-saggio – di David Cayley, scrittore e conduttore radiofonico canadese, studioso di Ivan Illich. Mi sono imbattuto nel pezzo sulla rubrica “Una Voce”, tenuta dal filosofo Giorgio Agamben su Quodlibet, che consiglio comunque di aggiungere alle liste di lettura. Consiglio anche di non farsi scoraggiare dalla lunghezza: la lettura vale lo sforzo. Un avvertimento ai possessori di certezze assolute: le letture e lo studio servono per farsi venire dubbi; fatevene venire, io ne sono pieno.

La scorsa settimana ho iniziato un saggio sull’attuale pandemia in cui ho cercato di affrontare quella che ritengo essere la domanda centrale che solleva: l’enorme e costoso sforzo per contenere e limitare il danno che il virus farà è l’unica scelta che abbiamo? Non è altro che un ovvio e inevitabile esercizio di prudenza intrapreso per proteggere i più vulnerabili? O è uno sforzo disastroso per mantenere il controllo di ciò che è ovviamente fuori controllo, uno sforzo che aggraverà il danno causato dalla malattia con nuovi problemi che si ripercuoteranno in futuro? Non avevo scritto molto prima di iniziare a rendermi conto che molte delle ipotesi che stavo formulando erano piuttosto lontane da quelle espresse intorno a me. Quelle ipotesi derivavano principalmente dalla mia prolungata conversazione con il lavoro di Ivan Illich. Questo mi ha suggerito che, prima di poter parlare in modo chiaro delle nostre circostanze attuali, avrei dovuto prima delineare l’atteggiamento verso salute, medicina e benessere che Illich ha sviluppato nel corso di una vita di riflessione su questi temi. Di conseguenza, in quanto segue, inizierò con un breve resoconto dell’evoluzione della critica alla bio-medicina di Illich e poi proverò a rispondere alle domande che ho appena posto in questa ottica…

All’inizio del suo libro del 1973 Tools of Conviviality (Strumenti per la convivialità), Illich descrisse quello che pensava fosse il tipico corso di sviluppo seguito dalle istituzioni contemporanee, usando la medicina come sua esemplificazione. La medicina, disse, aveva attraversato “due spartiacque”. Il primo era stato attraversato nei primi anni del 20° secolo, quando le cure mediche erano diventate evidentemente efficaci e i benefici avevano iniziato in genere a superare i danni. Per molti storici della medicina questo è l’unico indicatore rilevante: da questo punto in poi i progressi sarebbero andati avanti indefinitamente e, sebbene possano esserci fasi di minor progresso, in linea di principio non ci sarà alcun punto in cui i progressi si arrestano. Questo non era il caso di Illich. Lui teorizzava un secondo spartiacque, che considerava già attraversato e addirittura lasciato alle spalle nel periodo in cui scriveva. Attraversato questo secondo spartiacque, supponeva, si sarebbe scatenato ciò che chiamava controproduttività: l’intervento medico avrebbe iniziato a sconfiggere i suoi stessi oggetti, generando più danni che benefici. Questo, sosteneva, era caratteristico di qualsiasi istituzione, bene o servizio – si poteva identificare un punto in cui ce n’era abbastanza e, oltre, ce ne sarebbe stato troppo. “Strumenti per la convivialità”, è stato un tentativo di identificare queste “misure naturali” – l’unica ricerca così generale e programmatica di una filosofia della tecnologia che Illich abbia intrapreso.

Due anni dopo in “Medical Nemesis” – in seguito ribattezzato, nella sua edizione finale e più completa, “Limits to Medicine”(limiti alla medicina) – Illich ha cercato di esporre in dettaglio i prodotti e i danni che la medicina fa. È stato generalmente favorevole alle innovazioni su larga scala nella sanità pubblica che ci hanno dato buon cibo, acqua sicura, aria pulita, smaltimento delle acque reflue ecc. Ha anche elogiato gli sforzi in corso in Cina e Cile per stabilire un kit di strumenti medici di base e una farmacopea che dovrebbe essere disponibile e alla portata di tutti i cittadini, piuttosto che consentire alla medicina di sviluppare beni di lusso che rimarrebbero per sempre fuori dalla portata della maggioranza. Ma il punto principale del suo libro era identificare e descrivere gli effetti controproducenti che gli sembrava diventassero evidenti quando la medicina attraversò il suo secondo spartiacque. Parlò di questi fallimenti della troppa medicina come “iatrogenesi” e li assegnò a tre categorie: clinica, sociale e culturale. Le prime, ormai, sono chiari a tutti: ti viene fatta la diagnosi sbagliata, prescritto il farmaco sbagliata, l’operazione sbagliata, ti ammali in ospedale, ecc. Questo danno collaterale non è banale. Un articolo della rivista canadese «The Walrus» – Rachel Giese, “Gli errori dei loro modi, aprile 2012 – stima che il 7,5% dei canadesi ricoverati negli ospedali ogni anno subisca almeno un “evento avverso” e 24.000 muoiono a causa di errori medici. Nello stesso periodo, Ralph Nader, scrivendo su “Harper’s Magazine”, ha suggerito che il numero di persone negli Stati Uniti che muoiono ogni anno a causa di errori medici prevenibili è di circa 400.000. Questo è un numero impressionante, anche se esagerato – la stima di Nader è due volte più alta pro capite di quella di “The Walrus” – ma questo danno accidentale non è stato, in alcun modo, nel mirino di Illich. Ciò che lo preoccupava davvero era il modo in cui un trattamento medico eccessivo indeboliva le attitudini sociali e culturali di base. Un esempio di ciò che ha chiamato iatrogenesi sociale è il modo in cui l’arte della medicina, in cui il medico agisce come guaritore, testimone e consigliere, tende a lasciare il posto alla scienza della medicina, in cui il medico, come scienziato, deve, per definizione, trattare il proprio paziente come un soggetto sperimentale e non come un caso unico. E poi c’è il danno finale portato dalla medicina: la iatrogenesi culturale. Ciò si verifica, ha affermato Illich, quando le capacità culturali, costruite e trasmesse per molte generazioni, vengono prima indebolite e poi, gradualmente, sostituite del tutto. Queste abilità includono, soprattutto, la volontà di soffrire e sopportare la propria realtà e la capacità di morire della propria morte. L’arte della sofferenza viene oscurata, sosteneva, dall’aspettativa che tutta la sofferenza possa e debba essere immediatamente alleviata – un atteggiamento che, di fatto, non pone fine alla sofferenza, ma la rende insignificante, trasformandola in mera anomalia o fallimento tecnico. E la morte, infine, si trasforma da atto intimo e personale – qualcosa che ognuno può fare – in una sconfitta insignificante – una mera cessazione del trattamento o “staccare la spina”, come talvolta si dice senza cuore. Dietro gli argomenti di Illich c’era un atteggiamento cristiano tradizionale. Ha affermato che la sofferenza e la morte sono inerenti alla condizione umana – fanno parte di ciò che definisce questa condizione. E ha sostenuto che la perdita di questa condizione comporterebbe una rottura catastrofica sia con il nostro passato che con la nostra creatività. Mitigare e migliorare la condizione umana è positivo, ha detto. Perderla del tutto è una catastrofe perché possiamo conoscere Dio solo come creature – cioè esseri creati o dati – non come dèi che hanno preso in carico il proprio destino.

Medical Nemesis è un libro sul potere professionale – un punto su cui vale la pena soffermarsi un momento, in vista degli straordinari poteri che vengono attualmente accordati in nome della salute pubblica. Secondo Illich, la medicina contemporanea, in ogni momento, esercita potere politico, sebbene questa caratteristica possa essere nascosta dall’affermazione che tutto ciò che viene fatto valere è la cura. Nella provincia dell’Ontario in cui vivo, “l’assistenza sanitaria” attualmente assorbe oltre il 40% del bilancio del governo, il che dovrebbe rendere chiaro il punto. Ma questo potere quotidiano, per quanto grande, può essere ulteriormente ampliato da ciò che Illich chiama “la ritualizzazione della crisi”. Ciò conferisce alla medicina “una licenza che di solito solo il potere militare può rivendicare”. Lui continua:

Nello stress della crisi, il professionista che si ritiene al comando può facilmente presumere l’immunità dalle normali regole di giustizia e decenza. Colui a cui viene assegnato il controllo sulla morte cessa di essere un normale essere umano … Poiché formano una terra incantata al di là di questo mondo, la collocazione spazio-temporale e di comunità rivendicato dall’impresa medica sono sacri quanto le loro controparti religiose e militari.

In una nota a piè di pagina di questo brano Illich aggiunge che “colui che rivendica con successo il potere in un’emergenza sospende e può annullare la valutazione razionale. L’insistenza del medico sulla sua capacità esclusiva di valutare e risolvere le singole crisi lo porta simbolicamente nei pressi della Casa Bianca.” C’è un sorprendente parallelo qui con l’affermazione del giurista tedesco Carl Schmitt nella sua Teologia politica, che il segno distintivo della vera sovranità è il potere di “decidere sull’eccezione”. Il punto di Schmitt è che la sovranità è al di sopra della legge perché in un’emergenza il sovrano può sospendere la legge – dichiarare un’eccezione – e governare al suo posto come la vera fonte di legge. Questo è precisamente il potere che Illich afferma che il medico “rivendica… in caso di emergenza”. Circostanze eccezionali lo rendono “immune” alle “regole ordinarie” e in grado di crearne di nuove secondo il caso. Ma c’è una differenza interessante e, secondo me, significativa tra Schmitt e Illich. Schmitt resta inchiodato a ciò che chiama “politico”. Illich nota che gran parte di ciò che Schmitt chiama sovranità è sfuggito o è stato usurpato dal regno politico e reinvestito in varie egemonie professionali.

Dieci anni dopo la pubblicazione di Medical Nemesis, Illich ha rivisitato e rivisto la sua tesi. Non rinunciando in alcun modo a ciò che aveva scritto in precedenza, ha rincarato la dose. Nel suo libro, ora afferma, era stato “cieco a un effetto iatrogeno simbolico molto più profondo: la iatrogenesi del corpo stesso”. Aveva “trascurato il grado in cui, a metà del secolo, l’esperienza dei ‘nostri corpi e noi stessi’ era diventata il risultato di concetti medici e cure”. In altre parole, aveva scritto in Medical Nemesis come se ci fosse un corpo naturale, esistente al di fuori della rete di tecniche con cui è costruita la sua autocoscienza, e ora poteva vedere che non esiste un tale punto di vista. “Ogni momento storico”, ha scritto, “è incarnato in un corpo specifico dell’epoca”. La medicina non agisce solo su uno stato preesistente, ma partecipa alla creazione di questo stato.

Questo riconoscimento è stato solo l’inizio di una nuova posizione da parte di Illich. Medical Nemesis si era rivolta a una cittadinanza che era stata pensata in grado di agire per limitare la portata dell’intervento medico. Ora parlava di persone la cui stessa immagine di sé veniva generata dalla biomedicina. Medical Nemesis aveva affermato, nella sua frase di apertura, che “l’establishment medico è diventato una grave minaccia per la salute”. Ora giudica che la principale minaccia per la salute è la ricerca della salute stessa. Dietro questo cambiamento di mentalità c’era la sensazione che il mondo, nel frattempo, avesse subito un cambiamento epocale. “Credo”, mi disse nel 1988, “che… c’è stato un cambiamento nella dimensione mentale in cui vivono molte persone. Una sorta di rottura catastrofica di un certo modo di vedere le cose ha portato alla nascita di un modo diverso di vedere le cose. Il soggetto dei miei scritti è stato la percezione del senso del nostro modo di vivere; e, a questo proposito, in questo momento, a mio avviso, stiamo passando sopra uno spartiacque. Non mi aspettavo di osservare questo passaggio nel corso della mia vita.” Illich ha definito “il nuovo modo di vedere le cose” come l’avvento di quella che ha chiamato “l’era dei sistemi” o “un’ontologia dei sistemi”. L’età che considerava al capolinea era stata dominata dall’idea di strumentalità – di usare mezzi strumentali, come la medicina, per raggiungere un fine o un bene, come la salute. Questa aveva la caratteristica di operare una chiara distinzione tra soggetti e oggetti, mezzi e fini, strumenti e loro utenti ecc. Nell’era dei sistemi, ha detto, queste distinzioni sono crollate. Un sistema, concepito ciberneticamente, avvolge tutto, nulla vi è esterno. L’utente di uno strumento utilizza lo strumento per raggiungere un fine. Gli utenti dei sistemi si trovano all’interno del sistema, adeguando costantemente il loro stato al sistema, mentre il sistema regola il proprio stato su di essi. Un individuo limitato che persegue il benessere personale lascia il posto a un sistema immunitario che ricalibra costantemente il suo confine mobile con il sistema circostante.

All’interno di questo nuovo “discorso analitico di sistema”, come lo chiamava Illich, lo stato caratteristico delle persone è la incorporeità. Questo è un paradosso, ovviamente, dal momento che ciò che Illich chiamava “la patogenica ricerca della salute” può comportare una preoccupazione intensa, incessante e praticamente narcisistica per il proprio stato fisico. Perché Illich lo abbia concepito come incorporea può essere meglio compreso dall’esempio di “consapevolezza del rischio” che lui ha definito “la più importante ideologia celebrata religiosamente oggi”. Il rischio era di disincarnazione, ha detto, perché “è un concetto strettamente matematico”. Non riguarda le persone ma le popolazioni: nessuno sa cosa accadrà a questa o quella persona, ma ciò che accadrà al complesso di qelle persone può essere espresso in termini di probabilità. Identificarsi con questa finzione statistica significa affrontare, ha detto Illich, una “auto-algoritmizzazione intensiva”.

Il suo incontro più angosciante con questa “ideologia celebrata religiosamente” si è verificato nel campo dei test genetici durante la gravidanza. Gli fu stato presentato dalla sua amica e collega Silja Samerski, che stava studiando la consulenza genetica, obbligatoria in Germania per le donne in gravidanza che prendono in considerazione i test genetici – un argomento di cui in seguito avrebbe scritto in un libro intitolato The Decision Trap (la trappola decisionale). I test genetici in gravidanza non rivelano nulla di preciso sul bambino che la donna sottoposta a test si aspetta. Tutto ciò che rileva sono marcatori il cui significato incerto può essere espresso in probabilità – una probabilità calcolata su tutta la popolazione a cui appartiene quella sottoposta a test, in base alla sua età, storia familiare, etnia ecc. Quando le viene detto, ad esempio, che c’è una probabilità del 30% che il suo bambino abbia questa o quella sindrome, non le viene detto nulla di se stessa o del frutto del suo grembo – le viene detto solo cosa potrebbe accadere a qualcuno come lei. Non sa nulla di più della sua reale situazione di quanto rivelino le sue speranze, i suoi sogni e le sue intuizioni, ma il profilo di rischio che è stato accertato per il suo doppelganger (il suo “doppio”) statistico richiede una decisione. La scelta è esistenziale; l’informazione su cui si basa è la curva di probabilità a cui è stato iscritto il soggetto decidente. Illich lo trovò un orrore perfetto. Non che non riconoscesse che ogni azione umana è uno sparo nel buio – un calcolo prudenziale di fronte all’ignoto. Il suo orrore era di vedere le persone riconoscersi nell’immagine di un costrutto statistico. Per lui, questa era l’eclissi dell’individuo nella popolazione; uno sforzo per impedire al futuro di presentare l’imprevisto; e la sostituzione di modelli scientifici all’esperienza percepita. E questo stava accadendo, realizzava Illich, non solo per quanto riguarda i test genetici in gravidanza, ma più o meno su tutta la linea nel settore sanitario. Sempre più persone agivano in modo prospettico, probabilisticamente, in base al loro rischio. Stavano diventando, come una volta il ricercatore canadese Allan Cassels ironizzò, “pre-malato” – vigili e attivi contro le malattie che uno come loro può contrarre. I singoli casi venivano sempre più gestiti come casi generali, come istanze di una categoria o classe, piuttosto che come situazioni uniche, e i medici erano sempre più i servomeccanismi di questa nuvola di probabilità piuttosto che i consiglieri intimi consapevoli di differenze e significati personali specifici. Questo era ciò che Illich intendeva per “auto-algoritmizzazione” o disincarnazione.

Un modo per comprendere il corpo iatrogeno che Illich vedeva come l’effetto principale della biomedicina contemporanea è tornare a un saggio che è stato ampiamente letto e discusso nel suo ambiente nei primi anni ’90. Dal titolo “La biopolitica degli organismi postmoderna: costituzioni del sé nel discorso sul sistema immunitario”, è stato scritto dalla storica e filosofa della scienza Donna Haraway e appare nel suo libro del 1991 Simians, Cyborgs and Women: The Reinvention of Nature. Questo saggio è interessante non solo perché penso che abbia influenzato il senso di Illich su come si stesse sviluppando il discorso bio-medico, ma anche perché Haraway, vedendo – direi – quasi esattamente le stesse cose di Illich, trae conclusioni che sono, punto per- punto, diametralmente opposte. In questo articolo, ad esempio, afferma, con riferimento a quello che lei chiama “il corpo postmoderno”, che “gli esseri umani, come qualsiasi altro componente o sottosistema, devono essere localizzati in un’architettura di sistema le cui modalità operative di base sono probabilistiche, statistiche.” “In un certo senso”, continua, “gli organismi hanno smesso di esistere come oggetti di conoscenza, lasciando il posto a componenti biotici”. Questo porta a una situazione in cui “nessun oggetto, spazio o corpo è sacro in sé; e i componenti possono essere interfacciati con qualsiasi altro, se lo standard adeguato, il codice appropriato, può essere costruito per elaborare segnali in un linguaggio comune.” In un mondo di interfacce, in cui i limiti regolano le “velocità di flusso” piuttosto che segnare differenze reali, “l’integrità degli oggetti naturali” non è più un problema. “La ‘integrità’ o la ‘sincerità’ del sé occidentale”, scrive, “lascia il posto a procedure decisionali, sistemi di esperti e strategie di investimento delle risorse”.

In altre parole, Haraway, come Illich, capisce che le persone, in quanto esseri unici, stabili e santificati, si sono dissolte in sottosistemi autoregolanti provvisoriamente in costante scambio con i sistemi più grandi in cui sono invischiati. Nelle sue parole, “siamo tutti chimere, ibridi teorizzati e fabbricati della macchina e dell’organismo … il cyborg è la nostra ontologia”. La differenza tra loro sta nelle loro reazioni. Più avanti, altrove nel volume da cui proviene il saggio che sto citando, pubblica quello che lei chiama il suo “Manifesto Cyborg”. Invita le persone a riconoscere e accettare questa nuova situazione, ma a “leggerla” in vista della liberazione. In una società patriarcale, non esiste una condizione accettabile a cui si possa sperare di tornare, quindi offre “un argomento per il piacere nella confusione dei confini e per la responsabilità nella loro costruzione”. Per Illich, invece, la “ontologia del cyborg”, come la chiama Haraway, non era un’opzione. Per lui era in gioco il carattere stesso delle persone umane come esseri animati con un’origine divina e un destino divino. Mentre le ultime vestigia di senso venivano cancellate dall’auto-percezione corporea dei suoi contemporanei, vedeva un mondo che era diventato “immune alla propria salvezza”. “Sono giunto alla conclusione”, mi disse in tono lamentoso, “che quando l’angelo Gabriele disse a quella ragazza nella città di Nazareth in Galilea che Dio voleva essere nel suo ventre, indicò un corpo che è sparito dal mondo in cui vivo.”

Il “nuovo modo di vedere le cose” che si rifletteva nell’orientamento della biomedicina equivaleva, secondo Illich, a “una nuova fase di religiosità”. Ha usato la parola religiosità in senso lato per riferirsi a qualcosa di più profondo e pervasivo della religione formale o istituzionale. La religiosità è il terreno su cui ci troviamo, i nostri sentimenti su come e perché le cose sono come sono, l’orizzonte stesso all’interno del quale prende forma il significato. Per Illich, la creazione o la determinatezza del mondo era il fondamento di tutta la sua sensibilità. Ciò che aveva visto arrivare era una religiosità di totale immanenza in cui il mondo è la sua stessa causa e non vi è alcuna fonte di significato o ordine al di fuori di esso – “un cosmo”, come diceva, “nelle mani dell’uomo”. Il bene più alto in un mondo simile è la vita e il dovere principale delle persone è conservare e favorire la vita. Ma questa non è la vita di cui si parla nella Bibbia – la vita che viene da Dio – è piuttosto una risorsa che le persone possiedono e dovrebbero gestire in modo responsabile. La sua peculiare proprietà è quella di essere allo stesso tempo oggetto di riverenza e manipolazione. Questa vita naturalizzata, separata dalla sua fonte, è il nuovo dio. Salute e sicurezza sono i suoi aiutanti. Il suo nemico è la morte. La morte impone ancora una sconfitta finale ma non ha altro significato personale. Non c’è il tempo giusto per morire – la morte segue quando il trattamento fallisce o viene interrotto.

Illich si rifiutò di “interiorizzare i sistemi nel sé”. Non avrebbe rinunciato né alla natura umana né alla legge naturale. “Non riesco proprio a perdere la certezza”, ha detto in un’intervista con il suo amico Douglas Lummis, “che le norme con cui dovremmo vivere corrispondono alla nostra visione di ciò che siamo”. Ciò lo ha portato a respingere la “responsabilità per la salute”, concepita come una gestione di sistemi mescolati. Come si può essere responsabili, ha chiesto, per ciò che non ha né senso, né confine né terreno? Meglio rinunciare a tali illusioni confortanti e vivere invece in uno spirito di autolimitazione che ha definito come “rinuncia coraggiosa, disciplinata, autocritica compiuta nella comunità”.

Riassumendo: Illich, nei suoi ultimi anni, concluse che l’umanità, almeno attorno a lui, aveva abbandonato i suoi sensi e si era trasferito armi e bagagli in un sistema costruttivo privo di qualsiasi fondamento per una decisione etica. I corpi in cui le persone vivevano e camminavano erano diventati costrutti sintetici intrecciati con TAC e curve di rischio. La vita era diventata un idolo quasi religioso, a presidio di una “ontologia dei sistemi”. La morte era diventata un’oscenità insignificante piuttosto che una compagna intelligibile. Tutto ciò è stato espresso con forza e inequivocabilmente. Non ha tentato di ammorbidirlo o offrire un confortante “d’altro canto…”. Ciò a cui assisteva era ciò che sentiva accadere intorno a lui, ed era interamente concentrato nel provare a registrarlo nel modo più sensibile possibile e affrontarlo nel modo più sincero possibile. Il mondo, a suo avviso, non era nelle sue mani, ma nelle mani di Dio.

L’opinione di Illich è chiaramente reazionaria in tutti i sensi comuni del termine. Vuole tornare indietro o rinunciare a un’era di sistemi in cui l’unità primaria della creazione, la persona umana, è andata perduta. Ha le sue radici in una rivelazione da cui pensa che il mondo si sia allontanato, corrompendo la “vita più prospera” promessa nel Nuovo Testamento in un’egemonia umana così totale e così claustrofobica che nessuna intimazione dall’esterno del sistema può raggiungere la maggior parte dei partecipanti. Pensa che da tempo abbiamo superato la soglia alla quale la medicina avrebbe potuto mitigare e integrare la condizione umana piuttosto che abolirla. Crede che gran parte dell’umanità non sia più disposta a “sopportare … [la sua] carne ribelle, lacerata e disorientata” e ha invece scambiato la sua arte della sofferenza e la sua arte della morte per alcuni anni di aspettativa di vita e le comodità della vita in una “creazione artificiale”. Si può dare un senso all’attuale “crisi” da questo punto di vista? Direi di sì, ma solo nella misura in cui possiamo fare un passo indietro dalle urgenze del momento e prenderci del tempo per considerare ciò che viene rivelato sulle nostre disposizioni di base – le nostre “certezze”, come le chiamava Illich.

Innanzitutto, la prospettiva di Illich indica che già da tempo pratichiamo gli atteggiamenti che hanno caratterizzato la risposta all’attuale pandemia. È caratteristica sorprendente degli eventi che si ritiene abbiano cambiato la storia o “cambiato tutto”, come si sente a volte, il fatto che le persone spesso sembrano essere in qualche modo preparate o addirittura inconsciamente o semi-cosciamente in attesa di essi. Ricordando l’inizio della prima guerra mondiale, lo storico economico Karl Polanyi ha usato l’immagine del sonnambulismo per caratterizzare il modo in cui i paesi dell’Europa si trascinavano verso il loro destino – automi che accettavano ciecamente il destino che avevano inconsapevolmente proiettato. Gli eventi dell’11 settembre 2001 – l’11 settembre, come lo chiamiamo ora – sembra furono immediatamente interpretati e compresi, come se tutti stessero aspettando di dichiarare il significato oggettivo di ciò che era accaduto – la fine dell’Età dell’ironia, l’inizio della guerra al terrore, qualunque esso sia. Parte di questo è sicuramente un trucco di prospettiva in base al quale il senno di poi trasforma istantaneamente la contingenza in necessità – dal momento che qualcosa è accaduto, supponiamo che fosse destinato ad accadere da sempre. Ma non credo che questa possa essere l’intera storia.

Al centro della risposta al coronavirus c’è stata l’affermazione che dobbiamo agire in modo prospettico per prevenire ciò che non si è ancora verificato: una crescita esponenziale delle infezioni, la sopraffazione delle risorse del sistema sanitario, che metterà il personale medico nella posizione scomoda di eseguire triage, ecc. Altrimenti, si dice, quando scopriremo con cosa abbiamo a che fare, sarà troppo tardi. (Vale la pena sottolineare, di passaggio, che questa è un’idea non verificabile: se avremo successo, e ciò che temiamo non si sarà verificato, potremo dire che le nostre azioni lo hanno impedito, ma non sapremo mai realmente se questo fosse il caso). L’idea che l’azione prospettica sia cruciale è stata prontamente accettata e le persone hanno persino gareggiato l’una con l’altra nel denunciare i ritardatari che hanno mostrato resistenza ad essa. Ma agire in questo modo richiede esperienza nel vivere in uno spazio ipotetico in cui la prevenzione supera la cura, e questo è esattamente ciò che Illich descrive quando parla del rischio come “l’ideologia più importante celebrata religiosamente oggi”. Un’espressione come “appiattire la curva” può diventare un senso comune dalla sera alla mattina solo in una società abituata a “stare un passo avanti alla curva” e nel pensare in termini di dinamica della popolazione piuttosto che di casi reali.

Il rischio ha una storia. Uno dei primi a identificarlo come preoccupazione di una nuova forma di società fu il sociologo tedesco Ulrich Beck nel suo libro del 1986 Risk Society (la società del rischio), pubblicato in inglese nel 1992. In questo libro, Beck descriveva la tarda modernità come un esperimento scientifico incontrollato. Con incontrollato intendeva dire che non abbiamo un pianeta libero su cui possiamo condurre una guerra nucleare per vedere come va, nessuna seconda atmosfera che possiamo riscaldare e osservare i risultati. Ciò significa che la società tecno-scientifica è, da un lato, iper-scientifica e, dall’altro, radicalmente non scientifica nella misura in cui non ha standard in base ai quali può confrontare o valutare ciò che ha fatto. Ci sono infiniti esempi di questo tipo di esperimento incontrollato – dai bambini in provetta e le pecore transgeniche al turismo internazionale di massa e la trasformazione delle persone in relè di comunicazione. Tutti questi, nella misura in cui hanno conseguenze imprevedibili e imponderabili, costituiscono già una sorta di vita nel futuro. E proprio perché siamo cittadini della società del rischio, e quindi partecipanti per definizione a un esperimento scientifico non controllato, siamo diventati – paradossalmente o no – preoccupati di controllare il rischio. Come ho sottolineato sopra, siamo curati e sottoposti a screening per le malattie che non abbiamo ancora, sulla base della nostra probabilità di contrarle. Le coppie incinte prendono decisioni sulla vita e sulla morte in base a profili di rischio probabilistici. La sicurezza diventa un mantra – “addio” diventa “stai attento” – la salute diventa un dio.

Altrettanto importante nell’attuale atmosfera è stata l’idolizzazione della vita e l’avversione dalla sua oscena controparte, la morte. Il fatto che dobbiamo “salvare vite” a tutti i costi non è messo in discussione. Questo rende molto facile iniziare una fuga precipitosa. Far sì che un intero paese “torni a casa e resti a casa”, come ha detto il nostro primo ministro non molto tempo fa, ha costi immensi e incalcolabili. Nessuno sa quante imprese falliranno, quanti posti di lavoro andranno persi, quanti si ammaleranno di solitudine, quanti riprenderanno dipendenze o si faranno violenza nel loro isolamento. Ma questi costi sembrano sopportabili non appena viene presentato lo spettro delle vite perse. Ancora una volta, è da tempo che ci esercitiamo a contare le vite. L’ossessione per il “bilancio delle vittime” dell’ultima catastrofe è semplicemente l’altro lato della medaglia. La vita diventa un’astrazione – un numero senza una storia.

Illich affermò a metà degli anni ’80 che stava cominciando a incontrare persone il cui “io stesso” era un prodotto di “concetti e cure mediche”. Penso che ciò aiuti a spiegare perché lo stato canadese, e i governi provinciali e municipali al suo interno, abbiano ampiamente fallito nel riconoscere ciò che è attualmente in gioco nella nostra “guerra” contro “il virus”. Ripararsi dietro le gonne della scienza – anche dove non c’è scienza – e rimettersi agli dei della salute e della sicurezza è apparso loro come necessità politica. Coloro che sono stati acclamati per la loro leadership, come il premier del Quebec François Legault, sono stati quelli che si sono distinti per la loro risoluta coerenza nell’applicazione della idea convenzionale. Pochi hanno ancora osato mettere in discussione il costo – e, quando quei pochi includono Donald Trump, il compiacimento prevalente è solo rafforzato – chi oserebbe essere d’accordo con lui? Sotto questo aspetto, l’insistenza della ripetizione della metafora della guerra è stata influente: in una guerra nessuno conta i costi o calcola chi li sta effettivamente pagando. Innanzitutto, dobbiamo vincere la guerra. Le guerre creano solidarietà sociale e scoraggiano il dissenso: a coloro che non mostrano la bandiera può essere mostrato l’equivalente della piuma bianca con cui i non combattenti sono stati messi alla berlina durante la prima guerra mondiale.

Alla data in cui scrivo, all’inizio di aprile, nessuno sa davvero cosa stia succedendo. Dal momento che nessuno sa quanti hanno la malattia, nessuno sa quale sia il tasso di mortalità: l’Italia è attualmente oltre il 10%, il che la pone nell’ambito della catastrofica influenza alla fine della prima guerra mondiale, mentre la Germania è a 0,8%, che è più in linea con ciò che accade ogni anno senza clamore: alcune persone molto anziane e alcune più giovani prendono l’influenza e muoiono. Ciò che sembra chiaro, qui in Canada, è che, ad eccezione di alcuni siti locali di vera emergenza, il pervasivo senso di panico e crisi è in gran parte il risultato delle misure adottate contro la pandemia e non della stessa pandemia. Qui la parola stessa ha avuto un ruolo importante: la dichiarazione dell’Organizzazione mondiale della sanità che una pandemia era ufficialmente in corso non ha cambiato lo stato di salute di nessuno, ma ha cambiato radicalmente l’atmosfera pubblica. Era il segnale che i media stavano aspettando per introdurre un regime in cui non potesse essere discusso altro che il virus. Ormai una storia sul giornale non attinente al coronavirus è in realtà scioccante. Questo non può fare a meno di dare l’impressione di un mondo in fiamme. Se non parli di nient’altro, presto sembrerà che non ci sia nient’altro. Un uccello, un croco, una brezza primaverile possono iniziare a sembrare quasi irresponsabili: “non sanno che è la fine del mondo?” come chiede un vecchio classico della musica country. Il virus acquisisce una rilevanza straordinaria – si dice che abbia depresso il mercato azionario, chiuso le attività commerciali e generato panico, come se queste non fossero le azioni delle persone responsabili ma della malattia stessa. Emblematico per me, qui a Toronto, era il titolo di The National Post. In un carattere che occupava gran parte della metà superiore della prima pagina, diceva semplicemente PANICO. Nulla indicava se la parola dovesse essere letta come una descrizione o un’istruzione. Questa ambiguità è costitutiva di tutti i media, e trascurarla è la caratteristica deformazione professionale del giornalista, ma diventa particolarmente facile ignorarla in una crisi certificata. Non è l’informazione ossessiva o l’urgenza delle autorità a fare di più che ha capovolto il mondo: è il virus che l’ha fatto. Non dare la colpa al messaggero. Un titolo sul sito STAT del 1° aprile, e non credo fosse uno scherzo, ha persino affermato che “Covid-19 ha affondato la nave di stato”. È interessante, a questo proposito, eseguire un esperimento mentale. In che misura ci sentiremmo di fronte a un’emergenza se questa non fosse mai stata definita una pandemia e non fossero mai state assunte misure così severe contro di essa? Un sacco di problemi sfuggono all’attenzione dei media. Quanto sappiamo o ci preoccupiamo della catastrofica disintegrazione politica del Sud Sudan negli ultimi anni, o dei milioni di persone che sono morte nella Repubblica Democratica del Congo dopo lo scoppio della guerra civile nel 2004? È la nostra attenzione che costituisce ciò che consideriamo di rilievo nel mondo in un dato momento. I media non agiscono da soli – le persone devono essere disposte a partecipare dove i media indirizzano la loro attenzione – ma non credo che si possa negare che la pandemia sia un oggetto costruito che potrebbe essere stato costruito in modo diverso.

Il primo ministro canadese Justin Trudeau ha osservato il 25 marzo che stiamo affrontando “la più grande crisi sanitaria nella nostra storia”. Se si ritiene che si riferisca a una crisi sanitaria, questo mi sembra una grottesca esagerazione. Si pensi ai disastrosi effetti del vaiolo sulle comunità indigene o ad una ventina di altre epidemie catastrofiche dal colera e dalla febbre gialla alla difterite e alla poliomielite. Si può davvero dire che un’epidemia di influenza che sembra principalmente uccidere i più anziani o quelli sensibilizzati da altre condizioni sia anche solo paragonabile alla devastazione di interi popoli, peggio lasciati soli? Eppure, “senza precedenti”, così come il “più grande di sempre” del Primo Ministro, sembra essere l’espressione sulla bocca di tutti. Tuttavia, se prendiamo le parole del Primo Ministro alla lettera, in riferimento al sistema sanitario e non solo alla salute, il caso cambia. Fin dall’inizio le misure di sanità pubblica adottate in Canada sono state esplicitamente volte a proteggere il sistema sanitario da qualsiasi sovraccarico. Per me questo indica una straordinaria dipendenza dagli ospedali e una straordinaria mancanza di fiducia nella nostra capacità di prenderci cura gli uni degli altri. Indipendentemente dal fatto che gli ospedali canadesi siano mai sopraffatti o meno, sembra essere coinvolta una strana e spaventosa mistica: l’ospedale e i suoi quadri sono ritenuti indispensabili, anche quando le cose possono essere gestite più facilmente e in sicurezza a casa. Ancora una volta Illich è stato presciente nella sua affermazione, nel suo saggio ” Disabling Professions”, secondo il quale le egemonie professionali sovraesposte consumano le capacità popolari e fanno dubitare delle proprie risorse.

Le misure imposte dalla “più grande crisi sanitaria della nostra storia” hanno comportato un notevole ridimensionamento delle libertà civili. Ciò è stato fatto, si dice, per proteggere la vita e, allo stesso modo, per evitare la morte. La morte non è solo da evitare, ma deve anche essere nascosta e non considerata. Anni fa ho sentito la storia di un ascoltatore confuso in una delle lezioni di Illich sulla Nemesi medica che in seguito si era rivolto al suo compagno e aveva chiesto: “Cosa vuole, che lasciamo che la gente muoia?” Forse alcuni dei miei lettori vorrebbero farmi la stessa domanda. Bene, sono sicuro che ci sono molte altre persone anziane che si unirebbero a me nel dire che non vogliono vedere le giovani vite rovinate per poter vivere un anno o due in più. Ma oltre a ciò, “lasciare che le persone muoiano” è una formulazione molto divertente perché implica che il potere di determinare chi vive o muore è nelle mani di colui al quale è rivolta la domanda. Il noi che viene immaginato di avere il potere di “lasciar morire” esiste in un mondo ideale di informazione perfetta e perfetta padronanza tecnica. In questo mondo non accade nulla che non sia stato scelto. Se qualcuno muore, sarà perché sono stati “lasciati … morire”. Lo stato deve, a tutti i costi, favorire, regolare e proteggere la vita – questa è l’essenza di ciò che Michel Foucault chiamava biopolitica, il regime che ora senza dubbio ci governa. La morte deve essere tenuta lontana dalla vista e dalla mente. Deve essere negato il significato. Non arriva mai il momento di nessuno – sono solo lasciati andare. La tetra mietitirice potrebbe sopravvivere come personaggio comico nei cartoni animati newyorkesi, ma non ha spazio nelle discussioni pubbliche. Ciò rende difficile persino parlare della morte come qualcosa di diverso dalla negligenza di qualcuno o, almeno, da un esaurimento finale delle opzioni terapeutiche. Accettare la morte è accettare la sconfitta.

Gli eventi delle ultime settimane rivelano quanto viviamo totalmente all’interno dei sistemi, quanto siamo diventati popolazioni piuttosto che cittadini associati, quanto siamo governati dalla necessità di superare continuamente il futuro che noi stessi abbiamo preparato. Quando Illich scrisse libri come Tools for conviviality e Medical Nemesis, sperava ancora che la vita nei limiti fosse possibile. Ha cercato di identificare le soglie alle quali la tecnologia deve essere limitata per mantenere il mondo su una scala locale, sensibile e conversabile su cui gli esseri umani potrebbero rimanere gli animali politici che Aristotele pensava che fossimo destinati a essere. Molti altri hanno avuto la stessa visione e molti hanno cercato negli ultimi cinquant’anni di mantenerla in vita. Ma non vi è dubbio che il mondo da cui Illich ci ha messo in guardia è passato. È un mondo che vive principalmente in stati disincarnati e spazi ipotetici, un mondo di emergenza permanente in cui la prossima crisi è sempre dietro l’angolo, un mondo in cui l’incessante chiacchierata della comunicazione ha allungato il linguaggio oltre il suo punto di rottura, un mondo in cui la scienza troppo estesa è diventata indistinguibile dalla superstizione. In che modo quindi le idee di Illich possono ottenere qualsiasi risultato in un mondo che sembra essersi allontanato dai suoi concetti di misura, equilibrio e significato personale? Non si dovrebbe semplicemente accettare che il grado di controllo sociale che è stato recentemente esercitato è proporzionato e necessario nel sistema immunitario globale di cui siamo, nell’espressione di Haraway, “componenti biotiche?”

Forse, ma è un vecchio assioma politico che può essere trovato in Platone, Thomas More e, più recentemente, nel filosofo canadese George Grant, è che se non riesci a ottenere il meglio, almeno previeni il peggio. E le cose possono sicuramente peggiorare a causa di questa pandemia. È già diventato un luogo comune un po’ inquietante il fatto che il mondo non sarà più lo stesso una volta finita. Alcuni lo vedono come una prova e ammettono francamente che, sebbene questa particolare piaga possa non giustificare pienamente le misure che sono state prese contro di essa, queste misure continuano a costituire una valida esercitazione per piaghe future e potenzialmente peggiori. Altri lo vedono come un “campanello d’allarme” e sperano che, quando sarà finita, l’umanità castigata comincerà ad allontanarsi dal ciglio della catastrofe. La mia paura, e penso che sia condivisa da molti, è che lascerà dietro di sé una disposizione ad accettare maggiore sorveglianza e controllo sociale, più telescriventi e telepresenze, e una maggiore sfiducia. Al momento, tutti descrivono in modo ottimistico il distanziamento fisico come una forma di solidarietà, ma è anche un’abitudine a considerarsi l’un l’altro, e persino noi stessi – “non toccarti il viso” – come potenziali vettori di malattie.

Ho già detto che una delle certezze che la pandemia sta spingendo più in profondità nella mente popolare è il rischio. Ma questo è facile da trascurare poiché il rischio è così facilmente confuso con un pericolo reale. La differenza, direi, è che il pericolo è identificato da un giudizio pratico basato sull’esperienza, mentre il rischio è un costrutto statistico relativo a una popolazione. Il rischio non ha spazio per l’esperienza individuale o per il giudizio pratico. Ti dice solo cosa accadrà in generale. È un riassunto di una popolazione, non un ritratto di nessuna persona o una guida al destino di quella persona. Il destino è un concetto che si dissolve semplicemente di fronte al rischio, in cui tutti sono disposti, in modo incerto, sulla stessa curva. Ciò che Illich chiama “la misteriosa storicità” di ogni esistenza – o, più semplicemente, il suo significato – viene annullato. Durante questa pandemia, la società a rischio è diventata maggiorenne. Ciò è evidente, ad esempio, nella tremenda autorità accordata ai modelli, anche quando tutti sanno che sono informati da poco più di ciò che si spera siano ipotesi istruite. Un’altra illustrazione è la familiarità con cui le persone parlano di “appiattire la curva”, come se si trattasse di un oggetto quotidiano – ne ho anche sentito di recente in canzoni. Quando diventa un oggetto di politica pubblica operare su un oggetto matematico puramente immaginario, come una curva di rischio, è certo che la società del rischio ha fatto un grande balzo in avanti. Questo, penso, è ciò che Illich intendeva per disincarnazione: l’impalpabile diventa palpabile, l’ipotetico diventa reale e il regno dell’esperienza quotidiana diventa indistinguibile dalla sua rappresentazione in redazioni, laboratori e modelli statistici. Gli umani hanno vissuto, in ogni momento, in mondi immaginati, ma questo, penso, è diverso. Nella sfera della religione, ad esempio, anche i credenti più ingenui hanno la sensazione che gli esseri che evocano e affrontano nei loro incontri non siano oggetti di uso quotidiano. Nel discorso della pandemia, tutti si avvicinano in modo familiare ai fantasmi scientifici come se fossero reali come rocce e alberi.

Un’altra caratteristica correlata al panorama attuale è il governati-dalla-scienza e il suo necessario complemento: l’abdicazione della leadership politica poggiante su qualsiasi altro terreno. Anche questo è un campo coltivato a lungo e preparato per la semina. Illich ha scritto quasi cinquant’anni fa in Tools for conviviality che la società contemporanea è “stordita da un delirio per la scienza”. Questa illusione assume molte forme, ma la sua essenza è quella di costruire dalle pratiche disordinate e contingenti di una miriade di scienze un singolo vitello d’oro davanti al quale tutti devono inchinarsi. È questo gigantesco miraggio che di solito viene invocato quando ci viene chiesto di “ascoltare la scienza” o di dire che “gli studi mostrano” o “la scienza dice”. Ma non esiste la scienza, solo le scienze, ognuna con i suoi usi unici e le sue limitazioni uniche. Quando la “scienza” viene sottratta da tutte le vicissitudini e le ombre della produzione della conoscenza, ed elevata a oracolo onnisciente i cui sacerdoti possono essere identificati dai loro abiti, dalle loro posizioni solenni e dalle loro credenziali impressionanti, ciò che soffre, secondo Illich, è il giudizio politico. Non facciamo ciò che sembra buono al nostro grossolano e immediato senso di come le cose sono quaggiù in terra, ma solo ciò che può essere rivestito da un dice la scienza. In un libro intitolato Razionalità e Rituale, il sociologo scientifico britannico Brian Wynne ha studiato un’indagine pubblica condotta da un giudice della High Court britannica nel 1977 sulla questione se un nuovo impianto dovesse essere aggiunto al complesso di energia nucleare britannico a Sellafield sulla costa della Cumbria. Wynne mostra come il giudice avesse affrontato la domanda come una a cui la “scienza” avrebbe risposto: è sicura? – senza la necessità di consultare principi morali o politici. Questo è un caso classico dello spostamento del giudizio politico sulle spalle della Scienza, concepito secondo le linee mitiche che ho delineato sopra. Questo spostamento è ora evidente in molti campi. Uno dei suoi tratti distintivi è che le persone, pensando che la “scienza” sappia più di quello che sa, immaginano di sapere più di quello che sanno. Nessuna conoscenza effettiva è necessaria a supportare questa fiducia. Gli epidemiologi possono dire francamente, come molti hanno fatto, che, nel caso in esame, ci sono pochissime prove solide da presentare, ma ciò non ha impedito ai politici di agire come se fossero semplicemente il braccio esecutivo della scienza. A mio avviso, l’adozione di una politica di semi-quarantena per coloro che non sono malati – una politica che potrebbe avere conseguenze disastrose lungo il percorso in termini di lavori persi, imprese fallite, persone in difficoltà e governi soffocati dal debito – è una decisione politica e dovrebbe essere discussa in quanto tale. Ma, al momento, le ampie gonne della scienza proteggono tutti i politici dalla vista. Né qualcuno parla di imminenti decisioni morali. La scienza deciderà.

Nei suoi ultimi scritti Illich ha introdotto, ma mai realmente sviluppato, un concetto che ha chiamato “sentimentalità epistemica” – non una frase accattivante, è vero, ma penso che faccia luce su ciò che sta accadendo attualmente. La sua argomentazione, in breve, era che viviamo in un mondo di “sostanze fittizie” e “fantasmi generati dalla gestione” – una quantità qualsiasi di beni nebulosi, dall’educazione istituzionalmente definita alla “ricerca patogena della salute” potrebbe servire da esempio – e che in questo “deserto semantico pieno di echi confusi” abbiamo bisogno di “qualche feticcio prestigioso” per servire da “coperta di Linus”. Nel saggio che ho citato “La vita” è l’esempio primario. La “sentimentalità epistemica” si attacca alla vita e la vita diventa lo stendardo sotto il quale i progetti di controllo sociale e di sensibilizzazione tecnologica acquisiscono calore e lucentezza. Illich chiama questo sentimentalismo epistemico perché coinvolge oggetti di conoscenza costruiti che vengono poi resi naturali sotto l’egida gentile del “prestigioso feticcio”. Nel caso presente stiamo salvando freneticamente delle vite e proteggendo il nostro sistema sanitario. Questi oggetti nobili consentono un flusso di sentimenti a cui è molto difficile resistere. Per me si riassume nel tono quasi insopportabilmente untuoso con cui il nostro Primo Ministro ora si rivolge a noi ogni giorno. Ma chi non è angosciosamente preoccupato? Chi non ha detto che ci stiamo evitando a causa della profondità del nostro affetto reciproco? Questa è sentimentalità epistemica non solo perché ci conforta e fa sembrare umana una realtà spettrale, ma anche perché nasconde le altre cose che stanno accadendo – come l’esperimento di massa del controllo sociale e della conformità sociale, la legittimazione della tele-presenza come modalità di socializzazione e istruzione, l’aumento della sorveglianza, la normalizzazione della biopolitica e il rafforzamento della consapevolezza del rischio come fondamento della vita sociale.

Un altro concetto che credo Illich debba contribuire alla discussione attuale è l’idea di “equilibri dinamici” che sviluppa in Tools for conviviality. Questo pensiero mi è venuto di recente mentre leggevo, in Chronicle of Higher Education, una confutazione della posizione dissidente del filosofo italiano Giorgio Agamben sulla pandemia. Agamben aveva precedentemente scritto contro la disumanità di una politica che fa morire le persone da sole e poi mette al bando i funerali, sostenendo che una società che pone la “nuda vita” più in alto della conservazione del proprio modo di vivere ha abbracciato ciò che equivale a un destino peggiore della morte. La filosofa Anastasia Berg, nella sua risposta, esprime rispetto per Agamben, ma poi afferma che lui ha mancato il punto. Le persone cancellano i funerali, isolano i malati e si evitano a vicenda non perché la semplice sopravvivenza sia diventata l’essenza e la fine di tutte le politiche pubbliche, come sostiene Agamben, ma in uno spirito di amorevole sacrificio che Agamben è troppo ottuso e ancorato alla teoria per notare. Le due posizioni appaiono fortemente opposte, e la scelta un aut aut. Uno vede il distanziamento sociale, con Anastasia Berg, come una forma paradossale e sacrificale di solidarietà, o lo vede con Agamben come un fatidico passo in un mondo in cui gli stili di vita ereditati si dissolvono in un ethos di sopravvivenza a tutti i costi. Ciò che Illich ha cercato di argomentare in Tools for conviviality è che le politiche pubbliche devono sempre trovare un equilibrio tra domini opposti, razionalità opposte, virtù opposte. L’intero libro è un tentativo di discernere il punto in cui gli strumenti utili – strumenti per la convivialità – si trasformano in strumenti che diventano fini in se stessi e iniziano a dettare ai propri utilizzatori. Allo stesso modo, ha cercato di distinguere il giudizio politico pratico dall’opinione degli esperti, i discorsi casalinghi da quelli coniati dei mass media, le pratiche vernacolari dalle norme istituzionali. Molte di queste tentate distinzioni sono annegate nella monocromia del “sistema”, ma l’idea può ancora essere utile, credo. Ci incoraggia a porre la domanda, quando è abbastanza? Dov’è il punto di equilibrio? In questo momento questa domanda non viene posta perché i beni che perseguiamo sono generalmente considerati illimitati – non possiamo, per assunto, avere troppa istruzione, troppa salute, troppa legge o troppo delle altre basi istituzionali su cui generiamo la nostra speranza e la nostra essenza. Ma se la domanda fosse riproposta? Ciò richiederebbe di domandarci in che modo Agamben potrebbe avere ragione, pur accettando il punto di Berg. Forse potrebbe essere trovato un punto di equilibrio. Ma ciò richiederebbe una certa capacità di sostenere una mente divisa – il segno distintivo del pensiero, secondo Hannah Arendt – nonché la ressurrezione del giudizio politico. Un simile esercizio di giudizio politico implicherebbe una discussione su ciò che si perde nella crisi attuale e su ciò che si sta guadagnando. Ma chi delibera in caso di emergenza? Mobilitazione totale – preoccupazione totale – la sensazione che tutto sia cambiato – la certezza di vivere in uno stato di eccezione piuttosto che nel tempo ordinario – tutte queste cose militano contro la deliberazione politica. Questo è un circolo vizioso: non possiamo deliberare perché siamo in un’emergenza e siamo in un’emergenza perché non possiamo deliberare. L’unica via d’uscita dal cerchio è l’entrata – la via creata da ipotesi che sono diventate così radicate da sembrare ovvie.

Illich aveva avuto la sensazione, durante gli ultimi vent’anni della sua vita, di un mondo immerso in “un’ontologia dei sistemi”, un mondo immune alla grazia, alienato dalla morte e totalmente convinto del suo dovere di gestire ogni eventualità – un mondo, come disse una volta, in cui “astrazioni eccitanti che catturano l’anima si sono estese sulla percezione del mondo e del sé come federe di plastica”. Tale opinione non si presta prontamente alle prescrizioni politiche. La politica è fatta nel momento in base alle esigenze del momento. Illich parlava di modi di sentire, pensare e percepire che si erano insinuati nelle persone a un livello molto più profondo. Di conseguenza, spero che nessuno che abbia letto così lontano pensi che io stia facendo facili proposte politiche piuttosto che cercare di descrivere un destino che tutti condividiamo. Tuttavia, la mia visione della situazione è probabilmente abbastanza chiara da ciò che ho scritto. Penso che da questo tunnel in cui siamo entrati – di distanziamento fisico, appiattimento della curva ecc. – sarà molto difficile uscire – o lo annulliamo presto e affrontiamo la possibilità che sia stato tutto per niente, o lo estendiamo e creiamo danni che potrebbero essere peggiori delle vittime che abbiamo evitato. Questo non vuol dire che non dovremmo fare nulla. È una pandemia. Ma sarebbe stato meglio, a mio avviso, provare a continuare e usare la quarantena mirata per i malati accertati e i loro contatti. Chiudere gli stadi di baseball e le grandi arene di hockey, in ogni caso, ma tenere aperte le piccole imprese e cercare di distanziare i clienti allo stesso modo in cui stanno facendo i negozi che sono rimasti aperti. Morirebbero più persone? Forse, ma questo è tutt’altro che chiaro. E questo è esattamente il mio punto: nessuno lo sa. L’economista svedese Fredrik Erixon, direttore del Centro europeo per l’economia politica internazionale, ha recentemente sottolineato lo stesso punto in difesa dell’attuale politica precauzionale della Svezia senza chiusure. “La teoria del blocco”, dice, è “non testata” – il che è vero – e, di conseguenza, “Non è la Svezia che sta conducendo un esperimento di massa. Sono tutti gli altri.”

Ma, per dirlo di nuovo, la mia intenzione qui non è quella di contestare la politica, ma di mettere in luce le certezze degli esperti che rendono la nostra politica attuale incontestabile. Vorrei fare un ultimo esempio. Recentemente un editorialista del quotidiano di Toronto ha suggerito che l’attuale emergenza può essere interpretata come una scelta tra “salvare l’economia” o “salvare la nonna”. In questa figura, due grosse certezze sono contrapposte. Se prendiamo questi fantasmi come cose reali piuttosto che come costruzioni discutibili, possiamo solo finire mettendo un prezzo sulla testa della nonna. Meglio, vorrei discutere, provare a pensare e parlare in un modo diverso. Forse le scelte impossibili sollevate dal mondo della modellistica e della gestione sono un segno che le cose vengono inquadrate nel modo sbagliato. C’è un modo per passare dalla nonna come “elemento demografico” a una persona che può essere curata, confortata e accompagnata fino alla fine del suo percorso; da L’Economia come assoluta astrazione al negozio in fondo alla strada in cui qualcuno ha investito tutto ciò che ha e che ora potrebbe perdere. Al momento, “la crisi” tiene in ostaggio la realtà, prigioniera nel suo sistema chiuso e senz’aria. È molto difficile trovare un modo di parlare in cui la vita sia qualcosa di diverso e più che una risorsa che ognuno di noi deve gestire, conservare e infine salvare in modo responsabile. Ma penso che sia importante dare uno sguardo attento a ciò che è emerso nelle ultime settimane: la capacità della scienza medica di “decidere sull’eccezione” e quindi prendere il potere; il potere dei media di ricostruire il percepito come realtà, rinnegando la propria missione; l’abdicazione della politica davanti alla Scienza, anche quando non c’è scienza; lo smantellamento del giudizio pratico; il potenziamento della consapevolezza del rischio; e l’emergere della Vita come nuovo sovrano. Le crisi cambiano la storia ma non necessariamente per il meglio. Molto dipenderà da cosa si capirà di quello che l’evento ha rappresentato. Se, in seguito, le certezze che ho delineato qui non saranno state messe in discussione, l’unico risultato possibile che posso vedere è che si fisseranno ancor più saldamente nelle nostre menti e diventeranno ovvie, invisibili e indiscutibili.

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Un cetriolo lo sa fare

Oggi ho immaginato il giorno in cui mi metteranno in coma. Sui giornali c’è scritto ogni dettaglio, pare venga fatto tutto con grande scrupolosità. È richiesto che sia tu a procurarti le sponde del letto, però, se non vuoi rischiare di cadere. Il sistema di nutrizione assistita è a carico dello stato, ma ogni assistenza ulteriore è da intendersi iniziativa privata, compreso quanto serve a evitare le piaghe da decubito. Ma quelle sono il male minore, e del resto qui si tratta di vivere o morire. Cioè, è molto probabile che sia così; del resto non possiamo saperlo, perché non tutti possono essere testati, ci sono dei limiti alla capacità del sistema sanitario ad effettuare i test, e quei limiti sono stati ampiamente superati. I giornali dicono che alcune apparecchiature sono andata in tilt per il superlavoro e non ci sono abbastanza tecnici per ripararle. I tecnici sono stati i primi a essere colpiti dal morbo, forse proprio per aver avuto a che fare con le radiazioni. Comunque.

Comunque gli scienziati troveranno una soluzione, questo è certo. Tutta la comunità scientifica è concentrata nella ricerca di una cura ed è solo questione di tempo. Per questo bisogna guadagnare tempo, arrestare l’avanzata del morbo. Non c’è altra via che metterci in coma farmacologico, dicono, è l’unica condizione in cui gli edemi non si presentano. Non è una scelta personale, non è consentito rischiare, ne va della salute di tutti, è una scelta di comunità. Sembra che vedere gli altri morire sia sufficiente a scatenare lo scoppio dell’aneurisma nelle altre persone. Se mi lascio morire, posso far morire altri. E poi le risorse utilizzate per tentare di salvarmi potrebbero essere sottratte ad altri più bisognosi di me. Bisogna essere altruisti, fare appello al proprio senso civico. Io mi metto a dormire.

Proprio stamattina, dicevo, ho immaginato il giorno in cui mi metteranno in coma. I giornali hanno pubblicato il programma, che dà la precedenza alle categorie considerate più a rischio, ma poi si allarga a tutta la popolazione. Da quello che capisco del programma, a me dovrebbe toccare nell’arco di un paio di settimane. Nel frattempo, non devo ascoltare musica – pare sia un fattore scatenante -, non devo fare sport – l’aumento della frequenza cardiaca può essere fatale -, e devo tenermi alla larga da qualunque attività che possa far aumentare la pressione -compresi il sesso, il caffè, il peperoncino e i film horror. La programmazione televisiva del resto è cambiata per decreto da già più di un mese. Solo talk show (e quasi solo sul morbo). Qualche vecchio documentario ancora lo trasmettono, poi ci sono le pohotogallery di paesaggi, pare che calmino. Quelle mi piacciono, e ci sono pure abituato: ce n’avevo già una impostata come screensaver, e la tenevo quasi sempre accesa, quando ero in salotto a fare altro.

Ovviamente vedere la mia ragazza in questo momento è fuori discussione: troppe emozioni. Se io o lei avessimo l’aneurisma, potrebbe scoppiare da un momento all’altro. Non bisogna farsi prendere dal panico: agitarsi è un fattore scatenante. Il corriere ieri in prima pagina riportava il caso di un uomo a Messina che, all’arrivo dei sanitari chiamati a porlo in coma indotto, ha prima provato a scappare, poi ha aggredito gli agenti che li scortavano (le scorte, come si vede, sono diventate indispensabili), urlando che voleva rimanere sveglio. Lui è sopravvissuto, ma tre suoi vicini sono morti per lo spavento. Le autopsie hanno confermato che tutt’e tre avevano l’aneurisma, anche se nei comunicati non era specificato se fossero scoppiati, e se l’edema fosse tanto esteso da ucciderli così, sul colpo. Uno di loro era anche cardiopatico. Ma, del resto, cos’altro avrebbe potuto ucciderli? Gli ospedali sono al collasso, le sale mortuarie piene, non si possono fare autopsie molto accurate. Bisogna essere responsabili: è il momento di dormire.

In fin dei conti si tratta di rimanere in coma farmacologico per qualche settimana, forse qualche mese. Troveranno certamente presto una cura. Dicono che i sedativi utilizzati per indurre il coma siano anche piacevoli, tra l’altro: ti addormenti come leggermente ubriaco, e pare si sentano profumi e si vedano bande colorate danzare, quasi come un’aurora boreale. Non è peggio morire, dico io?

Insomma davvero, se io fossi fra i parenti dei tre deceduti a Messina, sarei veramente incazzato nero. Quell’uomo non poteva semplicemente farsi mettere in coma, come tutti? Se non fosse che agitarsi è pericoloso, ci sarebbe davvero da andare a caccia di quel tipo e staccargli la spina, staccarla a tutti quelli come lui, per dio. Del resto, non era contrario al coma? Farei una legge che chi è contrario al coma gli viene fatta l’eutanasia, ecco qua. Diamo la possibilità a chi vuole vivere, visto che alcuni non hanno rispetto per la vita, né la propria né quella degli altri. Mi manca il caffè, certo, quello manca anche a me. Il fumo no, ho smesso anni fa, e ne vado fiero. Tu dovresti smettere, sai? Il fumo è uno dei maggiori fattori di rischio. Dico a te, proprio a te (tanto lo so che fra quelli che stanno leggendo almeno la metà ha una sigaretta in mano. E speriamo sia solo una sigaretta, perché non escludo affatto che qualcuno di voi l’abbia rimpiazzata con uno spinello, che sarebbe addirittura peggio).

Tutti gli esperti lo dicono: smettete di fumare. Quello su cui sono divisi è la musica. Alcuni dicono che una musica rilassante possa far bene, ma… definisci” rilassante”! Quel coglione del mio vicino metteva sempre heavy metal a tutto volume, e quando gli dicevo “cazzo fai a dormire la notte con la capa rintronata da quel frastuono?”, lui mi rispondeva “anzi, rilassa”. Mi rilassa, rispondeva! E mica la capiva, l’antifona! Ogni volta che lo incontravo per le scale lo apostrofavo: “eccolo qua, il nostro metallaro”, e sono sicuro che c’era abbastanza disprezzo, nel mio tono, sotto l’atteggiamento scherzoso; ma lui niente, non ha mai smesso di ascoltare quella merda, sia pure solo la sera. Neanche mi rispondeva, il più delle volte. In un paio di casi, invece, in presenza d’altri vicini, ha risposto: “eccolo qua, il nostro passivo-aggressivo”. Ma io non sono come lui, io li capisco i sottointesi, lo so che mi avrebbe staccato la testa dal collo. Eppure quello che dava fastidio era lui, e non ero l’unico a sostenerlo.

Per fortuna adesso sono obbligatorie le cuffie. Se lui vuole ascoltare musica, non può obbligare me a farlo, espormi al rischio. In attesa di evidenza più certe, tutti i servizi online hanno iniziato a trasmettere solo musica classica, da camera o new age. Pare sia allo studio un provvedimento per sequestrare tutta la musica non autorizzata anche per uso privato. Sono d’accordo: se il mio vicino coglione ascolta heavy metal in cuffia e si fa scoppiare l’aneurisma, poi il letto in ospedale che occuperà potrebbe essere tolto a me, che invece seguo ligio tutte le regole. Non sarebbe affatto gusto.

Comunque a breve il problema non esisterà più. Il coma risolve tutto, per tutti. Dobbiamo affidarci a chi resterà sveglio: ai medici, ai ricercatori e agli amministratori che coordinano le attività. Alcuni dicono che quando avranno trovato la cura, la somministreranno direttamente nella flebo dell’alimentazione assistita. Ci sveglieremo già guariti. Dobbiamo avere fede.

Mi preoccupano solo i complottisti e i sobillatori. Con loro in giro, non posso mettermi a nanna tranquillo. Non so come facciano a non rendersi conto del dramma che stiamo affrontando, del pericolo che corriamo. Ma sapete che vi succede quando scoppia l’aneurisma? Ti viene un mal di testa che non riesci a pensare, alcuni non sono capaci di mettere a fuoco la tastiera per chiamare i numeri di emergenza, altri neanche riescono a ricordarli. Poi c’è la nausea, vomiti tutto quello che hai in corpo e svieni. Se non muori per l’edema cerebrale, affoghi nel tuo stesso vomito. I tuoi familiari ne vengono a conoscenza a cose fatte, spesso, perché i casi più severi sono fulminanti. Medici e infermieri corrono da un lato all’altro delle città, perché quando si viene colpiti ogni minuto è prezioso, si tratta di una vera e propria guerra, quindi il comportamento di ognuno di noi conta. Anche se mi ustiono cucinando la pizza sottraggo tempo perso al personale sanitario, per questo ho iniziato a mangiare solo cibo in scatola, appena è stato consigliato. E poiché lo stress è un fattore di rischio, medici, infermieri e paramedici stanno cadendo come mosche. Io sono al loro fianco in questa battaglia, tutti dovremmo esserlo, perché combattono per noi, muoiono per noi, si sacrificano per noi. Sono gli eroi del nostro tempo. Camice e fonendoscopio, altro che spade, scudi e armature.

Ma siamo uomini, vinceremo questa battaglia, la vinceremo insieme.

Alcuni dicono che siamo i responsabili di quello che ci sta accadendo, che dovremmo fare mea culpa. Per cosa? Per aver sviluppato farmaci per curare l’ansia e la depressione, per affrontare al meglio gli impegni? Perché è questo che dicono: che questa inspiegabile diffusione di aneurismi cerebrali pronti a scoppiare sia causata dall’utilizzo indiscriminato di sostanze psicotrope. Se anche fosse vero, non è certo questo il momento di fare dietrologia. Tutto quello che è stato fatto, è stato fatto in nome del progresso. Quando gli occhi vi bruciavano e la testa vi scoppiava per aver lavorato tutto il giorno al pc, quei farmaci vi facevano comodo, li assumevate di buon grado. Non è il momento dei disfattismi, bisogna essere uniti. Bisogna dormire.

Neanche delle nostre fortune, sappiamo gioire. Eppure si tratta di mettersi comodi, nel proprio letto, di essere nutriti e mantenuti vivi, di aspettare di risvegliarsi guariti. Di chiudere gli occhi, di non vedere nulla, di non sentire nulla, di non pensare nulla, di non capire, di non sapere, di non. Si tratta di non.

Cos’è più facile, di questo, da decidere, da accettare? Basta non scegliere. Basta stare qui, e aspettare. Basta essere inerti.

Un cetriolo lo sa fare. Potete ben riuscirci anche voi.

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La normalità era il problema

“Non torneremo alla normalità perché la normalità era il problema”. Comincia a girare questa frase. C’è, in essa, tutta la verità della semplicità, della nostra vita in un guscio di noce. Tutte le fragilità del nostro sistema sociale, tutte le tossicità del nostro tempo sono messe a nudo da un virus. Dove non sono arrivati filosofi, scienziati e pensatori, è arrivato un ammasso di macromolecole che giace in bilico sul confine del concetto stesso di vita. Non è lusinghiero, dover prendere lezioni da quello, ma le lezioni si imparano, non si rifiutano. Se saremo in grado di farlo, molto altro verrà da sé. Perché se ci siamo accorti che “il problema era la normalità”, non potremo non prendere atto che c’è troppo, ancora, da cambiare. La storia dirà se saremo ancora in grado di sbagliare direzione, perché il modo in cui stiamo affrontando l’emergenza suona proprio quel campanello d’allarme: possiamo decidere di andare ancora più alla deriva, di rispondere ai contagi con più distanza, invece che con più aiuto, di rispondere alle difficoltà con più egoismo, invece che con più collaborazione, di rispondere al disequilibrio della natura con più aggressività nei suoi confronti, invece che provando a ristabilirne l’equilibrio (quanto manca prima che qualcuno si faccia venire in mente di sterminare i pipistrelli, per prevenire le zoonosi?).

Perché ci sono molte lezioni positive che ci sta impartendo il virus, ma ci sono anche lezioni negative.

Le lezioni positive del coronavirus

Abbiamo imparato che la riduzione delle emissioni è possibile, che si possono rallentare i ritmi produttivi, che di fronte a un’emergenza si possono prendere provvedimenti drastici, subito, e “appiattire le curve”. Abbiamo imparato che se facciamo meno rumore i delfini tornano nei nostri golfi (https://www.peopleforplanet.it/pesci-a-venezia-e-delfini-a-cagliari-la-natura-non-e-in-quarantena-anzi/), che l’aria si fa più pulita (https://earthobservatory.nasa.gov/images/146362/airborne-nitrogen-dioxide-plummets-over-china) e che non siamo obbligati ad andare sempre a mille all’ora. Che possiamo restare a casa, una sera, leggere un libro, cucinarci la pizza da soli; che possiamo evitare di metterci in fila e, se dobbiamo, possiamo farlo senza saltarci addosso. Potremmo aver imparato che alcuni lavori si possono fare da casa, evitando pendolarismo esasperato, che si può coinvolgere chi è costretto a casa o chi è lontano con la didattica a distanza, che il sistema sanitario pubblico è un bene prezioso, da difendere, coltivare, migliorare. Ci è stato anche mostrato che bisogna essere lungimiranti nella programmazione della gestione delle crisi, che bisogna avere il coraggio delle scelte e farle sulla base di competenze, di consultazioni fra più discipline, ma anche che questi processi decisionali devono essere trasparenti, devono coinvolgere i cittadini invece che calar loro sul capo, che possono e devono essere comunicati con serietà, pacatezza, ragionevolezza, per rendere tutti partecipi, per generare senso di comunità attraverso il pensiero critico e l’empatia, piuttosto che lo sventolamento di bandiere – che cambieranno direzione quando cambierà il vento. Così è necessaria la condivisione dei dati e dei processi scientifici, della loro democraticità, della loro complessità e della loro fondamentale non-verità: un procedimento in divenire che accumula evidenze e fa convergere ipotesi e opinioni verso un accordo di lungo termine, ma di lunga durata, solo attraverso l’errore e la confutazione, la messa in discussione, l’accumulo di dati e il tempo. Il tempo. Il tempo però può essere accorciato, nei processi decisionali, nella condivisione dei dati scientifici, nel processo editoriale. Se si vuole, si può.

Abbiamo visto con i nostri occhi che le nostre decisioni influenzano altri, e non dall’altra parte del globo, tipo effetto farfalla, ma qui accanto, il nostro vicino, il collega di lavoro, quello in fila dietro di noi dal panettiere, che magari ci sta sulle scatole perché cerca di passarci avanti alla cassa, ma insomma, non sarà tutta lì, la sua vita. Abbiamo visto, anche, che siamo troppi, troppo concentrati. Quando proviamo a mantenere le distanze, ad avere uno spazio, troviamo che non ce n’è abbastanza, che il mondo è finito. Troviamo che dobbiamo rinunciare a qualcosa, per fare spazio. Ma se ognuno si fa da parte dove può, nessuno si fa male; nulla è irrinunciabile.

Ci è venuto almeno il dubbio che l’inquinamento uccida: lo sapevamo già, ma adesso c’è gente che, nelle zone con più elevata concentrazione di polveri sottili nell’atmosfera, muore con un ritmo molto maggiore che nel resto d’Italia, e c’è quantomeno la possibilità concreta che la correlazione sia alta.

La lezione negativa

In queste settimane, non sono state solo le fragilità del nostro sistema sociale a essere state messe a nudo, ma anche le nostre. Abbiamo visto quanto facilmente ci facciamo prendere dal panico, quanto prontamente crediamo a quello che ci viene detto, senza verifiche e intermediazioni, quanto siamo vittime dell’euristica, dell’esperienza personale, del mondo piccolo che ci circonda, della narrazione, delle nostre bolle social. La maggior parte di noi ha radicato un sé un senso profondo delle gerarchie, vuole sempre che qualcuno prenda in mano la situazione per conto di tutti e la risolva; vogliamo che altri prendano provvedimenti per noi, che li facciano rispettare con la forza. Capire è faticoso, partecipare al processo decisionale è rischioso, non ci interessa essere parte, ma solo sentirci dire che tutto andrà bene, come da piccoli. Solo che chi prende le decisioni adesso non lo fa rimboccandoci le coperte, per amore, ma per milioni di altri motivi; lo abbiamo visto accadere, ancora e ancora, ma abbiamo memoria corta, basta una posa forte e ci dimentichiamo di quello che poteva essere fatto e non è stato fatto, ci piacciono i vessili, le divise e l’autoelogio, e non sappiamo guardare ad altri modelli, più complessi, che richiedono più impegno. Non è richiesto impegno nel chiedere solo che ad altri sia imposto quello che noi vogliamo, o almeno quello che è stato imposto a noi e che – poiché ci è stato imposto – ci siamo convinti che era quello che volevamo, o di cui avevamo bisogno. Pensiamo di non essere in grado di partecipare, come comunità, che il prossimo non abbia abbastanza giudizio, che l’insegnamento non serva a nulla, che homo homini lupus, che quello che ferma il male sono solo le barriere e il respingimento.

L’invito ad ascoltare chi ha competenze non è un invito al silenzio (non dovrebbe): è un invito a studiare, a ragionare, a pronunciarsi quando si è maturata una conoscenza, a inseguirla; anche – perché no – a stimolare chi possiede quella conoscenza e quella competenza a diffonderla, a metterla a frutto, a provare a trasformarla in azione. Perché studiare per capire significa anzitutto capire la vastità di quello che non si conosce ancora, cercare supporto in chi ne sa di più, inseguirlo su quel terreno.

Per come siamo oggi, per l’idea che abbiamo di noi stessi e di noi stessi fra gli altri, siamo destinati al distanziamento: anche questo ci ha insegnato l’epidemia. Siamo tutti virus che camminano, ed è peggio che lupi, perché i lupi agiscono in gruppo, sono sociali. Ma vivere insieme, accettare di essere nodi di una rete, significa accettare la paura, accogliere il dolore. Di fronte a un pericolo, ci ricordiamo all’improvviso della morte, come se non sapessimo che cammina al nostro fianco da sempre; il pericolo immediato rimuove la nostra rimozione, e non è un male di per sé, ma è un male che il resto del tempo ci comportiamo come se fossimo eterni, noi e la natura: non accettiamo il dolore. Rilke ha scritto (ho imparato anche questo, in questi giorni) “Lascia che tutto ti accada, bellezza e terrore. Vai sempre avanti, nessun sentimento è definitivo”. Il virus dice lo stesso: lo stiamo ascoltando?

Ma no, almeno non ora. Oggi siamo in cerca di un capro espiatorio, e il peggio è che lo cerchiamo vicino a noi: siamo connessi col mondo, ma ancora cerchiamo il colpevole all’angolo di strada, nel vicino che non indossa la mascherina, nel corridore solitario che non rinuncia all’allenamento, persino nell’anziano che per alleviare la solitudine scende ogni giorno a fare la spesa. Perdiamo le prospettive, non sappiamo guardare più in là della nostra cerchia più stretta, di quello che ci accade sotto il naso. Se lo facciamo, se ci proviamo, siamo irrispettosi. Ma la conoscenza è rispetto, il pensiero critico è azione, l’analisi è soluzione. Se mettiamo ordine, non mettiamo distanza: cerchiamo posto. È l’alternativa alla retorica, che incontra i sentimenti solo all’apparenza, che scambia la forma per il contenuto, che piace tanto ai nostri politici, ai nostri media, a noi. Perché ci preoccupiamo solo del problema più prossimo, di quello più vicino, e questo ha senso, finché scappiamo, ma poi il fiato ci manca, bisogna fermarsi, e per trovare un rifugio adeguato ci tocca pensare.

Cosa ci serve

Come possiamo affrontare i problemi comuni? Come possiamo migliorare il nostro vivere civile, ritrovare l’equilibrio con le risorse naturali, affrontare i cambiamenti che la storia ci impone inevitabilmente? Una consapevolezza evoluta del percorso. Non è necessario negare che possano esistere delle priorità, ma bisogna giocare su più fronti. Lo studio e la ricerca ci servono per conoscere, per sapere quello che c’è da affrontare e come. Forse adesso è più chiaro a tutti il perché è necessario esplorare il reale, ma anche che tutti devono essere consapevoli della natura in divenire e non statica del sapere. Abbiamo bisogno di smetterla di polarizzare, di affidarci alle “narrazioni”: che il dibattito pubblico sia come il processo di conoscenza scientifica: un processo democratico di accumulo di conoscenza, discussione e raggiungimento dell’accordo (accordo: non consenso), attraverso la crescita comune, la presa d’atto, senza repressione del dissenso, ma per accumulo, attraverso l’analisi della realtà.

Abbiamo bisogno del dubbio, della complessità: non si risolvono i problemi vendendo le soluzioni disponibili come le uniche possibili. A mesi dall’inizio dell’epidemia, la verità è che non sappiamo davvero neanche quanto i lockdown siano necessari e/o insostituibili. Il primo dei provvedimenti adottati, la chiusura delle scuole, da sola, è di dubbia efficacia (https://www.washingtonpost.com/local/education/states-are-rushing-to-close-schools-but-what-does-the-science-on-closures-say/2020/03/16/2cbb64da-6799-11ea-b313-df458622c2cc_story.html?utm_campaign=e09b649635-briefing-dy-20200317&utm_medium=email&utm_source=Nature%20Briefing ).

Ci hanno indotto a pensare, per giorni, che la colpa della diffusione del virus, del fallimento del contenimento fossero i runners, i passeggiatori solitari, i cittadini annoiati che vanno alla coop ogni giorno. E intanto nel centro produttivo del paese le fabbriche lavoravano a pieno regime, i pendolari riempivano i mezzi pubblici, le cui corse erano state tagliate dagli amministratori, sovraffollandoli (https://medium.com/@tonyscalari/bergamo-is-running-quando-il-contagio-era-una-sensazione-ingannevole-9b2bd0f3320e). L’analisi delle celle telefoniche, messa in campo e data in pasto al pubblico per dimostrare che “c’è ancora troppa gente in giro”, intanto dimostrava che i movimenti si riducevano drasticamente nei weekend, confermando che sono in realtà gli spostamenti per lavoro, a motivare il movimento, e che in realtà i cittadini hanno risposto con responsabilità alla richiesta di distanziamento sociale. Ma mentre i social (e i balconi) si riempivano di moralizzatori, e mentre si cantava l’inno nazionale e si diceva “uniti ce la faremo”, le sentinelle additavano i trasgressori, chiamavano la polizia, invocavano denunce, pene, gambizzazioni e esercito, e l’esercito è presto arrivato (https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/03/vendicatori-in-divisa-coronavirus/?fbclid=IwAR2fmMKtx-ONwCH_WJvv2INi9J-YxxguoCVru3qTJY6yiDMU7w1d4lSuxvc#more-42460).

Io credo che un solo diritto dobbiamo mai smettere di reclamare: la possibilità di autodeterminazione. La privazione della libertà è la più aberrante delle aggressioni e se lasciamo che prevalga la voglia di limitare la possibilità di movimento e d’azione del nostro prossimo, perché vi vediamo un serbatoio di virus, trasmettiamo ai nostri figli l’idea che l’unica cosa che conta è la preservazione del sé, oggi, e renderemmo vano qualunque altro insegnamento che possa essere veicolato insieme a quello. Invocando l’esercito, pene più severe, il deserto nelle strade, l’ablazione di tutto quello che è umano – di tutto quello che è NATURALMENTE umano, non ci proteggiamo da un’epidemia, cadiamo solo preda di una peggiore. Gli ospedali, dove gli operatori sanitari sono stati costretti al superlavoro senza equipaggiamenti adeguati, sono diventati i siti principali di diffusione dell’infezione, ma invece di concentrarsi sulle dotazioni agli ospedali, o di riaprire e riattrezzare le strutture chiuse o depotenziate negli ultimi anni (a Napoli, il San Gennaro, gli Incurabili), De Luca ha invocato l’esercito per stanare i passeggiatori e i runner, e i lanciafiamme per incenerire gli irresponsabili. Molto hanno riso delle sue performance, sono nati fan club, non ho dubbi che la vicenda gli frutterà una riserva del beneamato “consenso politico”.

“In questo momento ci sono due epidemie, una delle quali – l’epidemia dell’autoritarismo, del securitarismo, del controllo ossessivo – si estende col pretesto di affrontare l’altra.” (Wu Ming 1).

Abbiamo bisogno di restringere la libertà personale o allargarla? Per essere compatti bisogna avere un uomo solo al comando o essere consapevoli di un obiettivo comune? So per certo qual è la risposta dei più, quella più ovvia. Ne ho avuto molte prove in questi giorni. Le cosiddette “forze dell’ordine” sono in deliquio, adesso possono urlare per strada “io sono lo stato” senza ricevere pernacchi e sberleffi. In Campania il presidente di regione Vincenzo De Luca ha chiesto e ottenuto l’intervento dell’esercito. Nel frattempo la Campania si collocava ultima nell’elenco di regioni per test effettuati, proprio mentre l’OMS invitava i paesi a effettuare più test possibili. Quindi non più test, più respiratori, più posti letto in ospedale, più mascherine per gli operatori sanitari, ma più soldati in strada.

D’altronde “siamo in guerra”, i medici sono “in trincea” e quella contro il coronavirus è una quotidiana “battaglia”. A sentire alcuni, però, il nemico non è il virus, ma il vicino. A Cagliari, il sindaco ha fatto installare dei manifesti, per strada, in cui le morti per coronavirus sono imputate alle corse, alle passeggiate, alle uscite per fare la spesa (https://www.vistanet.it/cagliari/2020/03/25/cagliari-polemica-per-la-campagna-promossa-dal-comune-contro-il-covid-19-clima-di-terrore/). Al 24 marzo, nella città metropolitana di Cagliari, 64 contagiati (!). Sarebbe legittimo chiedersi cosa spinge gli amministratori a fare questo. Sarebbe legittimo dubitare che lo facciano per rafforzare la propria posizione di potere, per legittimare la forza, la repressione, facendo leva sulla paura, in modo peraltro incongruo, perché non ha alcun senso vietare le uscite solitarie, nel rispetto della distanza di sicurezza, in un territorio in cui il contagio è sotto controllo, al prezzo di generare sospetto e ostilità fra i cittadini. L’unico senso è giustificare provvedimenti autoritari.

Molti si chiedono, infatti, se fosse necessario mettere in quarantena l’intera nazione, e non fosse invece possibile diversificare le strategie sul territorio. Certo questo non avrebbe giustificato lo schieramento dell’esercito. Di fronte a un’emergenza nazionale invece ci si può spingere a dire che “non è il momento di scioperare” e, più in generale, che non è il momento di polemizzare. Se fischiano le bombe, il dissenso è seppellito dal loro frastuono. Ma se non è il momento di dissentire quando veniamo messi gli uni contro gli altri, quando viene schierato l’esercito per privarci anche dell’ora d’aria, quando le forze dell’ordine sono autorizzate a multarci e denunciarci per aver deviato dal percorso, per esserci seduti su una panchina a respirare, per aver portato il cane a pisciare, quando mai potremo farlo?

Se non ora, quando?

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Il sasso nello stagno capitolo 3: infodemia e campagna elettorale

Il virus SARS-COV2 e la malattia COVID-19 rappresentano una sfida enorme per i sistemi sanitari e per la ricerca biomedica. Elencare i punti oscuri oggi è un esercizio senza fine. Solo fra gli argomenti cui abbiamo accennato qui, dobbiamo capire cosa davvero determini le differenze così importanti nella severità della malattia fra le varie fasce d’età e in base alla coesistenza con altre patologie; non è chiaro neanche se le differenze nelle percentuali di letalità fra i paesi siano legate a fattori biologici o ai modi – disomogenei – che si stanno adottando per attribuire le cause di morte; non sappiamo quanto sia durevole l’immunità acquisita, se avremo a disposizione un vaccino, e quando, e quanto sarà efficace. Potremmo continuare a lungo.

Ci sono cose che sappiamo, però, o su cui abbiamo idee fondate. Molte di queste cose sono state faticosamente enunciate dalla ragionevolezza mentre panico e interessi seminavano post-verità, con conseguenze gravissime. Ci stiamo preoccupando abbastanza di queste conseguenze? Ci stiamo curando abbastanza del nostro modo di affrontare la storia che avviene, della sua etica? È una domanda, quest’ultima, che il coronavirus scopre come una bassa marea, ma è la domanda che giace sotto i primi strati di sabbia di tutti i lidi della storia.

L’infodemia e la percezione del rischio

C’è un’altra pandemia in corso, nel mondo, che probabilmente fa più morti del coronavirus, almeno nella misura in cui è vero l’antico detto per cui ferisce più la parola che la spada. È stata la stessa OMS a parlare di “infodemia”, e a esortare i media a non rilanciare informazioni continue, contrastanti, spesso non verificate, troppe volte non fondate. Questa è la seconda lezione che ci sta impartendo il coronavirus, perché anche in questo caso il problema non è la COVID-19, ma la gestione che facciamo delle notizie (e della conoscenza, e del potere, e del nostro tempo, e delle nostre forze).

Lo studio (l’unico e il solo) che pretendeva di dimostrare che il coronavirus potesse essere trasmesso anche a 4,5 m di distanza (e che quindi la distanza di sicurezza interindividuale proposta era insufficiente, e di fatto probabilmente impossibile da ottenere) è stato pesantemente criticato, e infine ritirato. Nel frattempo la notizia aveva fatto il giro del mondo, cosa che non è (ovviamente) avvenuta per la smentita. La notizia che gli animali domestici potessero essere portatori della malattia ha causato abbandoni, benché non esista una sola dimostrazione che la notizia fosse vera (l’OMS ha confermato la positività di un unico cane, in Cina, che si è rivelato asintomatico e non è stato veicolo di infezione). L’idea che il virus potesse sopravvivere a lungo sulle superfici più disparate, sull’asfalto, o addirittura nell’aria, ha creato apprensioni immotivate. Niente di vero. Ma come ci si districa in un tale mare di informazioni, riuscendo a distinguere fra quelle fondate e quelle che non lo sono? In effetti, è un lavoro da professionisti, ma se le regole dell’informazione fossero queste, non si parlerebbe di post-verità. Se ne ricava che la TV è meglio tenerla spenta, che i social sono la proliferazione dell’assurdo e del complotto, ma purtroppo anche ascoltare i cosiddetti esperti spesso non aiuta. Perché gli esperti possono essere a caccia di visibilità, perché sopravvalutano le proprie competenze, perché a volte hanno da curare degli interessi. Capire dove informarsi e come informarsi è spesso più difficile che comprendere la portata dell’informazione. Esistono ancora canali affidabili, professionisti responsabili e competenti e piattaforme che rilanciano le notizie solo dopo averle verificate, ma sono l’eccezione piuttosto che la norma. Valigia blu – che è uno di quei canali – ha promosso un vademecum per informare in modo responsabile (https://www.facebook.com/valigiablu/photos/pb.139452422739093.-2207520000../3843460482338250/?type=3&theater), e vale la pena di mandarlo a memoria, perché, nella liquidità dell’universo digitale, il paradosso è che siamo tutti sia produttori che consumatori di notizie. Meno informazioni, in tempi meno brevi, con più elaborazione, con più spirito critico. Come sarebbe la nostra condizione psicologica e la nostra elaborazione di quello che sta accadendo se non avessimo avuto già negli occhi uno scenario di morte, quando il primo infetto è stato accertato in Italia? Che disposizione avremmo avuto nei confronti delle misure di contenimento, delle raccomandazioni di comportamento, se invece della caccia al colpevole (“i cinesi ci portano il virus!”), si fosse fatta informazione sulle modalità del contagio? E se anche queste dovessero sembrare domande vuote, nessuno avrà mancato di chiedersi, presto o tardi: quanto devo essere davvero preoccupato per questo nuovo coronavirus? La nostra percezione del rischio influenza il nostro comportamento, la nostra capacità di accettazione delle misure di contenimento, l’attenzione che poniamo nel rispetto delle direttive, il processo di responsabilizzazione individuale. Ma il rischio non è un dato fattuale, non si quantifica neanche con le percentuali di mortalità, di cui abbiamo imparato a dubitare, e che si prestano piuttosto a battaglie retoriche. Se consideriamo i fattori che influenzano la percezione del rischio, diventa chiaro quanto la selezione delle informazioni (da parte di chi le emette e di chi le riceve) e la loro elaborazione critica possano cambiare il nostro approccio al pericolo. Per un approfondimento rimando a questo articolo de “Il Tascabile” (https://www.iltascabile.com/scienze/percezione-rischio-coronavirus/); per gli scopi di questa discussione, mi limito a riportare che “l’accettabilità di un rischio non dipende solo dalla gravità della minaccia ma anche da altri elementi in grado di influenzare la percezione dei pericoli, come la volontarietà o meno all’esposizione, l’equità nella distribuzione fra rischi e benefici, la famigliarità con il pericolo, l’incertezza sulle possibili conseguenze, la reversibilità o l’irreversibilità del danno, la fiducia accordata alle istituzioni deputate alla gestione del rischio, e molti altri ancora”. Fra i “molti altri”, le motivazioni etiche, che sono quelle chi ci hanno fatti unanimemente indignare di fronte all’approccio inglese “abituatevi all’idea di perdere i vostri cari” per il bene superiore dell’immunità di gregge. L’infodemia amplifica la nostra percezione del rischio, ci impedisce di fare scelte ponderate e consapevoli, ci trasforma in una mandria impazzita che scappa dal fuoco. Molti rimarranno calpestati.

La partita a scacchi della politica

Se il procurato allarme sia un effetto collaterale dell’infodemia, o se il bombardamento di informazioni sia stato pianificato, resta dubbio. Mi pare però evidente che, ad oggi, la strategia della tensione sia adottata consapevolmente, per mantenere alta la guardia e convincere la popolazione ad accettare l’isolamento forzato e le norme di distanziamento sociale sempre più restrittive. In ossequio alla percezione di un rischio elevato, irreversibile, portato da un nemico nuovo e sconosciuto, i più di noi si sono fatti ingranaggio, e hanno rimandato il messaggio (#iorestoacasa). Da questo punto di vista, i nostri amministratori questa partita l’hanno vinta a mani basse. Il premier sta vivendo un momento di popolarità senza precedenti, e di sicuro fa un certo effetto vedere un popolo accettare tanto di buon grado le restrizioni alle libertà individuali e farsi corpo unico con lo stato. Tolta la retorica del #tuttoandràbene e l’inno di Mameli cantato dal balcone di casa, l’Italia è diventata un covo di delatori pronto a denunciare il vicino per essere sceso a fare jogging. Il panico è un rischio, l’ignoranza è una certezza. Dalle nostre parti, il governatore De Luca lo ha capito bene, e ha trovato terreno fertile per recitare la sua amata parte da “sceriffo”. Il successo della sua strategia è testimoniato dalla quantità di meme che gli sono stati tributati negli ultimi giorni, e si può scommettere che si tramuterà in consenso politico. Niente di originale: è la stessa strategia messa in campo da Salvini alle scorse elezioni, e che ha fatto guadagnare consensi a lui e alla Meloni con il “pericolo” immigrazione. Hanno provato a cavalcarlo di nuovo, stavolta contro i cinesi e per la chiusura dei confini, ma se invece ci fossimo concentrati sull’abbattimento dei confini culturali, sulla circolazione delle idee, magari saremmo arrivati più preparati ad affrontare l’emergenza.

A me tutto questo mette i brividi. L’aggressività nell’aria ha superato da tempo il livello di guardia, e mi fa molta più paura del coronavirus. Fra l’auspicio di vedere l’esercito nelle strade a far rispettare il decreto cura-Italia, una compiaciuta importazione del modello dittatoriale cinese, un’invocazione a gambizzare chi viene trovato a passeggiare per strada, fino ad arrivare al semplice insulto (“questi coglioni non vogliono capire: dovete stare a casa!”), sono sicuro che il rischio più grande che corriamo è quello di odiarci profondamente l’un l’altro. Se da Plauto a Hobbes c’è sempre stato qualcuno che ha ritenuto che l’uomo è un lupo per gli altri uomini (homo homini lupus), questo non è nulla a confronto col vedere il prossimo come un (serbatoio di) virus: i lupi ancora agiscono in branco, fanno alleanze.

“Certo bisogna farne di strada, da una ginnastica d’obbedienza, fino ad un gesto molto più umano, che ti dia il senso della violenza. Però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni”.

https://www.youtube.com/watch?v=2x02UxbRF8A

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Il sasso nello stagno capitolo 2: la narrazione e le contromisure

Messi sul tavolo i numeri, possiamo cominciare a capire di cosa stiamo parlando. Perché sì, fino ad ora non sono sicuro che stessimo parlando tutti della stessa cosa. Sotto il cappello del “coronavirus” hanno cavalcato in queste settimane sia i cavalieri dell’apocalisse, sia gli alfieri del “influenza non ti temo”. Infatti, c’è chi ha evocato eventi storici per metterci all’erta contro quella che si profilava (e si è poi confermata) emergenza sanitaria globale.

Il confronto con l’influenza spagnola e le altre pandemie storiche

In queste settimane di crisi, sono state tirate spesso in ballo pandemie storiche, nel tentativo (o nell’illusione) di trarne indicazioni per quella che stiamo vivendo, o semplicemente come ulteriore spauracchio per la popolazione, col risultato apparente di essere riusciti a seminare l’idea che “la società umana come la conosciamo oggi potrebbe essere spazzata via” dal coronavirus (letto veramente su twitter). Abbiamo così scoperto che le pandemie influenzali non sono rare, nella storia. L’influenza spagnola del 1918-20 ha causato almeno 17 milioni di morti, l’asiatica del 1957-58 circa 1,5 milioni, quella di Hong-Kong del 1968-69 circa 1-2 milioni, la russa del 1977-78 ha fatto 700mila morti. Quelle appena riportate sono le stime più ottimistiche: alcuni studi attribuiscono fino a 100 milioni di morti alla spagnola, fino a 4 milioni all’asiatica. Come si vede, i numeri di COVID-19 sono incomparabili, al momento. Dall’influenza spagnola del 1918-20, in particolare, tutto è cambiato: quella pandemia scoppiava quando non erano stati ancora scoperti gli antibiotici, e c’è da dire che la maggior parte dei decessi fu dovuto a infezioni batteriche secondarie che si innestavano sull’infezione virale (più o meno come accade per i casi severi della “normale” influenza stagionale). Gli antibiotici, pertanto, avrebbero potuto abbattere la letalità del contagio (a differenza di quanto accade nell’infezione da coronavirus, che è in grado di per sé di causare la polmonite che caratterizza i casi severi e critici). L’influenza spagnola, inoltre, scoppiava durante una guerra mondiale, i governi cercavano di insabbiarla per non apparire deboli nei confronti del nemico, e intanto stavano investendo le risorse del paese in spese militari, più che sanitarie. Un’altra differenza importante fra questa è quella pandemia è che la spagnola uccise soprattutto i giovani. Questo fu in parte dovuto all’età media della popolazione, molto più bassa di quella di oggi, ma anche al fatto che le fasce d’età più avanzate erano probabilmente almeno parzialmente immunizzate dal passaggio attraverso le pandemie precedenti (come quella russa del 1889-90). Le condizioni economiche e di salute medie delle popolazioni a quel tempo – di nuovo: un tempo di guerra – erano anche critiche per ampie fasce della popolazione, e anche questo contribuì. Da un punto di vista opposto bisogna dire che gli spostamenti (e quindi la diffusione di un virus) non sono mai stati così facili e favoriti come oggi. Resta il fatto che il confronto fra l’influenza spagnola, che è stato l’ultimo evento, nella storia, in cui la popolazione mondiale è complessivamente diminuita, invece di aumentare, sembra del tutto sproporzionato all’esperienza che stiamo vivendo.

Le misure di contenimento

Di fronte all’evidenza di un nuovo virus sul palcoscenico, la misura più logica è quella del contenimento: evitare che si diffonda. Da quando COVID-19 ha assunto lo status di pandemia, è chiaro che il contenimento ha fallito, ma questo non significa che quelle misure non debbano essere più adottate. È stato diffuso fino alla nausea il grafico che mostra come le misure di contenimento servano a mantenere la diffusione del virus sotto la soglia di guardia della capacità del sistema sanitario. Questo dovrebbe aver reso chiaro a tutti che tali misure non sono proporzionali al rischio individuale, come è facilmente percepito (stanno adottando misure estreme = la situazione è disperata = moriremo tutti), bensì al rischio collettivo. Va da sé che se il sistema collassa, il rischio individuale converge su quello collettivo. Come dovrebbe essere chiaro in ogni comunità, curarsi dell’interesse di tutti equivale a curarsi del proprio interesse, almeno a lungo termine, e questa è solo una delle tante lezioni che il coronavirus ci sta impartendo (ma che prevedibilmente lasceremo cadere nel vuoto). Fino a questo momento, sono state adottate quattro strategie principali per affrontare l’emergenza sanitaria indotta dal diffondersi del nuovo coronavirus. La prima è quella adottata in Cina, che è stata la prima ad affrontare l’emergenza. Come è noto, i cinesi sono stati in grado di tirar su interi ospedali in pochi giorni, e hanno adottato misure estreme (ed estremamente rigide) di lockdown per limitare i contatti e, di conseguenza, i contagi. Che il sistema abbia funzionato è sotto gli occhi di tutti, ma il prezzo, in termini economici, sociali e psicologici, non lo conosce ancora nessuno.

La seconda strategia, simile, è quella adottata dall’Italia, che però è stata meno rigida e, soprattutto, ha scalatol’epidemia man mano che si diffondeva, piuttosto che prendere provvedimenti per contenerla quando era ancora circoscritta. Questo ha procurato la percezione diffusa che la situazione andasse aggravandosi, man mano che le misure si facevano più restrittive. Unito alle modalità comunicative adottate dai media e dagli organismi di governo, ha creato una percezione del rischio verosimilmente distorta, rispetto alla situazione reale. Questo non equivale a dire che non esiste l’emergenza o che non dovesse essere affrontata con decisione, ma bisogna considerare che panico, dispercezione e ignoranza sono a loro volta fattori di rischio (ne parlerò più avanti).

Una terza strategia adottata è quella inglese: non tentiamo di evitare il contagio, ma lasciamo che faccia il suo corso, e ci affidiamo all’immunità acquisita. Su questa strategia e sulla sua spietatezza c’è poco da dire: significa consegnarsi al bagno di sangue. È davvero difficile capire come si possa prendere una decisione del genere, ed è sicuramente impossibile da accettare. A mio modo di vedere, il coronavirus si rivelerà un banco di prova più importante dal punto di vista politico e sociale che da quello sanitario.

Quella di cui si è parlato meno, tuttavia, è la strategia adottata dalla Corea del sud, e questo è particolarmente curioso, perché di fatto quello è il paese che ha affrontato e (probabilmente) risolto l’emergenza nel modo più rapido e brillante. Lì hanno dato vita a una campagna di test a tappeto per rilevare la positività al virus, per poi tracciare i contatti avuti dai positivi, testarli a loro volta e isolare i contagiati (trace, test and treat). Piuttosto che costruire ospedali e chiudere intere città (o intere nazioni, come abbiamo fatto in Italia), i coreani hanno creato una rete di 96 laboratori pubblici e privati impegnati a effettuare test sui tamponi. Per mettere su il test, creare il network e renderlo operativo hanno impiegato 17 giorni. Quattro compagnie sono state autorizzate a produrre il test, permettendo di raggiungere una capacità di 140mila campioni a settimana: abbastanza per non rimanerne mai a corto. Va da sé che se, osservando il divenire della situazione in Cina, i paesi europei avessero voluto attrezzarsi allo stesso modo, avrebbero avuto il vantaggio del tempo. Sarebbero stati necessari i lockdown? È una domanda che merita una riflessione. Quello che sappiamo dalla Corea del sud è che non c’è stato alcun lockdown, nessun posto di blocco, nessuna restrizione di movimento. Sono state chiuse le scuole e incoraggiati i lavoratori all’utilizzo della modalità smart working. Come già detto, in Corea del sud la mortalità della COVID-19 si attesta attualmente sullo 0,9%. Il tempo di raddoppiamento della malattia è 14 giorni, ed è in aumento. I numeri totali sono impressionanti, se confrontati con quelli globali: 75 morti (in Italia sono ad oggi 1441, ma su questo dato forse c’è altro da dire).

Oggi l’organizzazione mondiale della sanità invita tutti i paesi coinvolti a: testare, testare, testare. Quello che i coreani hanno fatto dal primo momento.

C’è sicuramente abbastanza carne a cuocere per rivedere alla radice tutta la narrazione dell’epidemia da SARS-COV2 e ricostruire la nostra percezione di quello che sta succedendo, e gli insegnamenti (e ammonimenti) che possiamo trarne. Alla prossima puntata.

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Il sasso nello stagno: ricerca e comunicazione al tempo del coronavirus

La ricerca della soluzione a problemi di qualunque natura richiede due cose: comunicazione e dialogo. La comunicazione serve a mettere tutti gli interlocutori in condizione di conoscere i termini del problema; il dialogo serve a consentire il contributo di tutti gli interlocutori alla sua soluzione. Nessuna difficoltà si supera in solitaria, perché nessuno vive nel vuoto. Sono realtà intuitive che si applicano all’esperienza quotidiana, ma sono anche le basi logiche dell’edificio della comunità scientifica. In un movimento idealmente circolare, i dati portano a ipotesi, che portano a osservazioni che portano a nuovi dati, i quali generano nuove ipotesi e così via. La condivisione di queste informazioni porta conoscenza. In una comunità globale, la conoscenza dovrebbe funzionare come un sasso nello stagno: un piccolo nucleo inizia il processo circolare e lo estende, per cerchi concentrici, a fasce sempre più ampie della popolazione.

All’alba del 2020, il sasso nello stagno è l’infezione da coronavirus, ma la sua gestione è stata da incubo. Più che un sasso nello stagno, l’evento assomiglia, ad oggi, a un incendio massivo: sembra aver seminato solo panico, morte e distruzione.

A circa tre mesi di distanza dall’esordio dell’epidemia, però, abbiamo dei vantaggi: i dati cominciano ad essere consistenti e interpretabili. Nessuna pretesa di fare previsioni o di elargire consigli di comportamento, qui, solo di comunicazione quello i dati a disposizione nel modo più corretto possibile. Così oggi ho fatto una cosa: mi sono collegato a “Our World in Data” (https://ourworldindata.org/coronavirus) e ho studiato la situazione dell’epidemia da Coronavirus ad oggi. Tutti i dati che discuto da qui in poi sono ricavati da lì: se conoscete l’inglese, potete andare, verificare, e “giocare” coi grafici voi stessi.

Velocità di diffusione

Cominciamo dal numero di casi, e cominciamo col dire che il numero di casi è quello che vorremmo sapere, ma che non sappiamo. La ragione è banale: la conoscenza di questo dato dipende dal numero di test effettuati, e il numero di test a sua volta dipende da una serie di altre variabili, dalla disponibilità stessa dei test ai criteri adottati per effettuarli. Possiamo pertanto ragionare solo sul numero di casi confermati, che sarà diverso in misura variabile (per esempio, da paese a paese, ma anche nel tempo) dal numero di casi reali, e, come vedremo, questo influenza a cascata tutta un’altra serie di considerazioni. La conoscenza del numero dei casi è cruciale per capire la rapidità con cui si diffonde il contagio: a questo fine, quello che conta è il tempo che la malattia impiega per raddoppiare il numero di infetti. Come ormai molti avranno letto, le malattie infettive hanno una modalità di diffusione esponenziale, il che vuol dire che la diffusione non avviene a un ritmo sempre uguale, bensì moltiplicato per un fattore. Ad esempio, non ci saranno mille nuovi casi al giorno, ma mille il primo giorno, duemila il secondo, quattromila il terzo e così via. Questo è dovuto al fatto che ogni nuovo contagiato può a sua volta contagiare un numero di persone pari a quello di chi lo ha infettato. Per questo motivo, il tempo di raddoppiamento dei casi è il dato che ci fa capire se la diffusione della malattia è ancora incontrastata (nella sua fase esponenziale) oppure no. I numeri crudi contano relativamente (almeno, non per comprenderla), e questo è il primo dei motivi per cui le modalità di comunicazione dei media restituiscono un’immagine distorta dell’andamento della malattia, soprattutto quando corredata (come avviene nella quasi totalità dei casi) da toni da apocalisse (“oggi duemila nuovi contagi!”; “trenta nuovi morti solo ieri!”). Quindi veniamo ai numeri. Al 14 marzo incluso, i casi confermati in tutto il mondo erano 142539, in Italia 17660. L’Italia resta la seconda nazione al mondo con più casi accertati dopo la Cina. Tuttavia, in Cina il numero di nuovi casi registrati è crollato nelle ultime settimane, e il tempo di raddoppiamento del numero di contagiati, dai 2 giorni circa di inizio epidemia, è diventato adesso di 33 giorni. In Italia il tempo di raddoppiamento è in divenire, e ad oggi è di 5 giorni. Se si osserva il grafico che mostra la progressione dei contagi a partire dal 100° caso accertato, si vede che la progressione iniziale dei contagi in Italia è inizialmente sovrapponibile alla curva di riferimento dei 2 giorni, come tempo di raddoppiamento. Questo vuol dire che il contagio sta rallentando, anche se non si vede ancora traccia dell’appiattimento della curva raggiunto dalla Cina coi suoi 33 giorni. L’andamento della Corea del sud è peculiare: lì il contagio è stato contenuto, e la curva di crescita appiattita, nell’arco di circa 10 giorni, e attualmente il tempo di raddoppiamento è già di 13 giorni. La Corea è un caso emblematico per spiegare il concetto che i numeri crudi contano relativamente. In Corea del sud ieri 14 marzo sono stati contati 107 nuovi casi. Non sembra un numero trascurabile (in Cina solo 30, nello stesso giorno), e sono cifre che risultavano allarmanti nei primi giorni del contagio in Italia (da noi, per intenderci, si registravano 125 nuovi casi il 25 febbraio), ma sono numeri molto confortanti se visti alla luce della progressione della malattia: il 1° marzo in Corea si contavano 586 nuovi casi, il 29 febbraio 813. In Italia ieri 14 marzo sono stati segnalati 2547 nuovi casi, meno del giorno precedente (ma un solo giorno non è sufficiente per dire che non siamo più in fase esponenziale). Si sente dire dai media che l’Italia sta ricevendo complimenti internazionali per come ha affrontato la situazione, eppure nessun altro paese al mondo ha avuto una progressione di casi e una diffusione così ampia del virus come il nostro, dopo la Cina. Corea e Giappone hanno affrontato e contenuto l’emergenza molto meglio e molto prima. La nostra curva sembra si stia appiattendo (anche se è ancora presto per dirlo) in risposta alle rigide misure applicate. Questo non vuol dire che fossero le misure giuste, o le migliori possibili, ma solo che stanno avendo un effetto.

La mortalità

Detto del ritmo di diffusione, quello che vorremmo sapere è il grado di fatalità della malattia. Anche qui è necessaria una premessa. Il grado di fatalità di una malattia può essere riportato in vari modi. Quello su cui ci soffermiamo qui, e su cui si è soffermata tutta l’informazione finora, è il numero di morti in relazione ai casi totali. Anche questa cifra è soggetta a cambiamenti continui, per vari motivi. Uno di questi è che analizzare oggi COVID-19 non è fare analisi di dati storici. I numeri sono in divenire per loro stessa natura: se dividiamo il numero di morti accertate ad oggi per il numero di infetti ad oggi, non terremo conto di tutti gli infetti di oggi che moriranno nei prossimi giorni, e sottostimeremo il dato. D’altro canto, le percentuali attuali sono al contrario soggette a sovrastima perché il numero totale di casi accertati è certamente molto più basso di quello reale, per il discorso fatto precedentemente sul numero di test effettuati. L’Italia al momento è il terzo paese al mondo che ha effettuato più test dopo Cina e Corea del sud, ma, se si considera la numerosità della popolazione, solo settima per numero di test effettuati per milione di persone. Se aumenta il numero di casi accertati, il percento mortalità, inevitabilmente, decresce. Questo è certamente il caso: secondo alcune stime, in Cina sarebbe stato accertato addirittura solo il 5% dei casi reali. I numeri attualmente in nostro possesso – preliminarmente – dicono questo: il grado di fatalità globale è del 3,48%. Come detto, è un dato soggetto a cambiamenti continui, ma presumibilmente destinato ad aggiustarsi verso il basso. Il numero è peraltro “drogato” dal livello di fatalità iniziale, nelle prime fasi dell’epidemia in Cina, quando si è raggiunto il 20% di morti su casi accertati. Il grado di fatalità attualmente calcolato nel “resto del mondo” è del 2,39%. In Italia, il dato parziale è particolarmente alto (7%), ma occorre considerare quanto detto riguardo all’evoluzione dei numeri osservata in Cina. Resta un’anomalia che va chiarita. Qui è importante capire una cosa che dall’informazione minuto-per-minuto che ci viene somministrata non viene fuori, o viene fuori capovolta: le variazioni dei numeri, soprattutto le variazioni della percentuale di decessi, verso l’alto non sono “sintomo” del peggioramento della situazione, ma sono principalmente dovute al fatto che nuovi casi (e nuovi “esiti”) vengono a galla man mano che i numeri si sommano. In una situazione in divenire, i dati sono giocoforza parziali, e si “riempiono” col passare dei giorni. L’aumento dei test, viceversa, porterà verosimilmente a una diminuzione di queste percentuali, senza che per questo la mortalità sia realmente diminuita. In Corea del sud, che è seconda sia per numero totale di test effettuati che per test per milione, la mortalità è dello 0,9%. Questo ci insegna un’altra cosa: questi dati servono a conoscere l’andamento della malattia, a capirla, ad adottare contromisure, non a darci la misura di quanto dobbiamo essere spaventati o di quanto rischiamo di morire. Se non ci mettiamo d’accordo su questo, sulla natura di questi numeri, sul come vengono calcolati, sembrerà (come è sembrato in queste settimane) che sia vero tutto e il contrario di tutto, e ci sentiremo autorizzati a farci prendere dal panico. Inutile dire che il grado di fatalità della malattia dipende da un’infinità di altre cose: l’efficienza del sistema sanitario, la disponibilità di cure, lo stato di salute globale della popolazione colpita, e così via. Altri termini di paragone: retrospettivamente, la mortalità stimata della SARS è del 10%, quella della MERS del 34%, quella dell’ebola del 50% (le prime sono altre due infezioni da coronavirus).

Le fasce di età

Come ampiamento chiarito in queste settimane, il decorso del COVID-19 è molto diverso per fasce di età, ed è profondamente influenzato dalla preesistenza di altre condizioni patologiche. I due fattori sono probabilmente collegati: l’elevato grado di fatalità negli anziani è verosimilmente legato alla più alta probabilità di coesistenza, in quelle fasce d’età, di altre patologie. Se ragioniamo sui dati cinesi (gli unici su cui ha senso fare un’analisi retrospettiva, a questo stadio), le percentuali discusse in precedenza sono così ripartite:

0-9 anni: 0%

10-19 anni: 0,2%

20-29 anni: 0,2%

30-39 anni: 0,2%

40-49 anni: 0,4%

50-59 anni: 1,3%

60-69 anni: 3,6%

70-79 anni: 8%

Più di 80 anni: 14,8%

Come si vede, le percentuali sono drammaticamente abbattute sotto i 50 anni, e si avvicinano a quelle (globali, però) della comune influenza. Ma quali sono, in realtà, queste “famose” percentuali di mortalità dell’influenza comune? Se riportiamo il dato americano del CDC (Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie), queste si attestano sullo 0,1% o sullo 0,2% a seconda di come il calcolo viene effettuato. Questo dato, così espresso, a differenza del 3,48% di COVID-19, è già in qualche misura “normalizzato” sulla parzialità dei casi totali riportati, cosa che, allo stato attuale, non è possibile fare per l’infezioni da coronavirus. Resta evidente che la gravità del decorso è molto maggiore nel caso del COVID-19, rispetto all’influenza stagionale, il cui dato è tuttavia spinto verso il basso dall’adozione delle vaccinazioni per le fasce a rischio, una cosa che possiamo augurarci sia possibile anche per il coronavirus nel prossimo futuro.

I sintomi

Mettiamo un punto su un altro dato: il periodo medio di incubazione del virus è di 5-6 giorni, ma all’interno di un intervallo piuttosto variabile fino a 14 giorni. L’eventualità (a cui è stata data ampia risonanza dai media) dell’insorgenza di sintomi dopo 27 giorni è episodica e si riferisce a un unico caso. Al momento, è ragionevole adottare i 14 giorni come tempo massimo di incubazione. In media, il decorso della malattia avviene in due settimane; nei casi severi 3-6; nei casi fatali il tempo che intercorre fra l’insorgenza dei sintomi e la morte è di 2-8 settimane.

Un punto importante è la necessità di ospedalizzazione. Si è fatto un gran parlare del rischio di collasso del sistema sanitario e di come le misure di contenimento servano essenzialmente a limitare il rischio collettivo, che è molto maggior del rischio individuale, di fronte ad una diffusione incontrollata di una malattia nuova. Bene, le stime di riferimento parlano di decorso lieve nel 81% dei casi, severo nel 14% dei casi e critico nel 5% (in cui è inclusa la porzione di mortalità discussa in precedenza). Si considerano casi lievi quelli in cui non c’è sviluppo di polmonite, o polmonite lieve. Vale qui il discorso fatto in precedenza: una larga fetta di casi molto lievi o asintomatici, al momento, è probabilmente non registrato (contrariamente a quelli severi e critici), quindi la piramide è destinata ad allargarsi, e la percentuale di casi lievi a crescere, a discapito di quelli severi e critici.

Un altro punto su cui non c’è (ancora oggi) ordine, nell’informazione, è la sintomatologia. Naturalmente la lista di sintomi registrati è lunga, e riportarla pedissequamente è un esercizio inutile e sbagliato: anche i sintomi hanno una loro importanza gerarchica e deve essere chiaro che non necessariamente tutti i sintomi devono presentarsi, né devono farlo contemporaneamente. Per esempio, i dolori muscolari (tipici dell’influenza), spesso elencato dai media come sintomo di COVID-19, in realtà è stato registrato solo nel 15% dei casi, e non è quindi un buon indizio di contagio. I sintomi più comuni sono febbre (87,9% dei casi) e tosse secca (67,7%). Seguono astenia, produzione di espettorato (non saliva, ma “catarro”). Poiché la maggior parte dei sintomi è sovrapponibile a quelli di una comune influenza, è utile tenere conto di quello che invece è raro nei casi di COVID-19: il “naso che cola”.

Rimando a un appuntamento successivo l’aggiornamento dei dati, l’approfondimento sulle misure di contenimento e il confronto, spesso usato a sproposito, con l’influenza spagnola dell’inizio del ‘900 (e con altre pandemie storiche).

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Sono qui per parlare

Le insegne servono per dare un nome, o per ingannare. Quella che è davanti a me serve a riportarmi da mio figlio, e non so ancora se è quello che voglio, o è un inganno. Entro. È quasi ora di cena, vedo ospiti scendere al ristorante dalle scale e dagli ascensori. L’atrio è pieno di specchi, ma io non mi guardo. A sinistra c’è il bancone della reception, chiedo di mio figlio (stanza 302) e prendo una camera anch’io, una vicina. Chiedo: il tredicesimo piano c’è? L’albergo è di tre piani.

Non ho bagaglio; prima di salire in camera faccio un giro per la sala ristorante. La cena è a buffet. C’è un tavolo lunghissimo che occupa una intera parete, le pietanze sono tutte lì, alcune coperte, altre in vassoi scoperti. L’insalata -verdissima- è in contenitori di vetro. C’è un sacco di luce. Ma sulla carne c’è una mosca, anzi due. Non volano: sono morte? Uno scarafaggio zampetta lungo la parete, sento il ticchettio delle sue piccole zampe sull’intonaco, e mi dico che non è reale. lnfatti c’è silenzio. La sala è piena di gente, alcuni mangiano. Un uomo con i capelli rossi si porta la forchetta alla bocca. Intorno vi è arrotolata una fetta di prosciutto piena di grasso. Nelle venature bianche si agitano piccoli vermi. Lui li ingoia. Adesso il tavolo brulica di insetti. Ci sono formiche, blatte, larve, ma anche mosche, vespe e calabroni, ma nessuno vola, tutti camminano. Una donna con gli occhi liquidi mi urta, si sporge sul tavolo e afferra un panino tondo, coperti di moscerini. Mi guardo i piedi, ma il pavimento è pulito. Ho in mano la chiave della mia camera, mi avvio per le scale. Ho paura di prendere l’ascensore, temo di rimane chiuso con gli insetti. Dopo due rampe di scale ho l’affanno, devo fermarmi. Decido di esplorare il primo piano. Alcune camere sono aperte. Un bambino esce dalla 107 e nonsi chiude la porta alle spalle, ha un grillo sulla schiena, si ferma ad aspettare l’ascensore, avrà sette o otto anni. Getto uno sguardo dentro la sua stanza, il letto è disfatto, pieno di insetti. I millepiedi sono disposti in cerchio sul cuscino, girano in tondo. Non ci sono altri letti, nella stanza, ma il bambino aveva grandi occhi azzurri e sporgenti, così mi chiedo se non sia al figlio della donna con gli occhi liquidi. Chiudo la porta della stanza per non far uscire gli insetti: il corridoio è vuoto. A terra ci è una moquette color terra, neanche i miei passi fanno rumore, e sembra che non esista un mondo di fuori. Forse gli insetti sono ospiti dell’albergo, discreti. Forse sono anche loro a cena. Forse i millepiedi erano i genitori del bambino, e stavano rassettando. Ho un brivido, un prurito diffuso e una sensazione sgradevole alle gengive. Stringo i denti per dimostrarmi di non avere nessuno scarafaggio in bocca, mi gratto la nuca furiosamente. Mi dico che se il bambino è figlio di millepiedi, mio figlio può essere un calabrone. Salgo alla 302, i miei passi sono brevi. Fra le dita sano rimasti alcuni capelli bianchi. Li porto lunghi da quel giorno li, come la barba. Mi porto entrambe le mani alla faccia, per controllare che non ci siano formiche nella barba, o mosche nei baffi. Alcuni peli bianchi si uniscono ai capelli, fra le dita. Ce n’è uno nero, residuo di un altro giorno, che però non ricordo.

La 302 è di fronte alle scale, ma mio figlio non c’è. Prendo la chiave della mia stanza, la 313, entro. Lui è lì, seduto sul letto, mi aspetta. Non è un calabrone, ma è nero dove si può: occhi, barba e capelli. Anche un’unghia è nera -quella del pollice destro- dove ha ingaggiato qualche battaglia con una porta e un battente. Ha perso. Sono qui per questo; lui è qui per questo. Dobbiamo parlare delle porte che si sono chiuse, in cui le dita si sono frapposte, sconfitte. Mi siedo di fianco a lui, che ha una gamba piegata sotto di sé, il peso del corpo sul gluteo destro. Io non posso, ho male alle ginocchia. Vorrei appoggiare la schiena, ma mi ricordo di come lo scarafaggio scalava la parete, giù nella sala ristorante. Resto un po’ ingobbito, ma mio figlio guarda su, e mi raddrizzo. La plafoniera sul soffitto non è ferma, si sposta, poi cade in mezzo a noi. Dentro c’è un animale, sei zampe, due tenaglie, una sorta il coda col pungiglione ricurvo. È arancione, peserà almeno due chili. Un gambero?, dico. Uno scorpione, dice mio figlio. Si alza. Dobbiamo parlare, ma prima deve informare il personale che la sua plafoniera è viva, e può pungere. Non ci sono altri insetti, nella stanza, e lo scorpione mi fissa. Penso che forse quella è casa sua, e noi l’abbiamo invasa. Forse gli insetti non sono ospiti dell’albergo, magari l’albergo è ospite degli insetti, e loro lo stanno sfrattando.

Mio figlio non ha chiuso la porta, ha paura per le altre sue dita. Gli dico andrà bene, anche se lui non è lì, ma ha sentito. E torna, lui torna, e stavolta chiude la porta.

Hanno chiamato i pompieri, lui dice.

Gli insetti hanno chiamato i pompieri.

Mi sveglio.

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Crash

La dottoressa t’ha chiamata Krash, con la K. Ho pensato che fosse per far sì che tu non ti identificassi col tuo nome, ma che il tuo nome “suonasse” solo come te. Noi, però, abbiamo sempre scritto Crash. Più semplice, più vero.
Ho provato ad aiutarti, non ci sono riuscito.
Quando ti ho vista, avevi il muso che sfiorava il terreno, pensavo stessi mangiando. Poi ho visto il sangue, mi sono avvicinato, provavi a camminare, tremavi. Ti ho messo le mani attorno ai fianchi, con tutta la delicatezza di cui sono capace, ti ho chiesto “ti faccio male, così?”. Non mi hai risposto, ti ho sollevata, posata sul muretto. Avevi sangue fresco su una zampa, sangue in bocca. Ho pensato: “stai morendo”. Però ho detto: “non morire”. Ti ho portata a casa nel freddo, il sudore che mi si ghiacciava sulla schiena, all’inizio solo per non lasciarti lì, poi perché siamo stupidi: non sappiamo evitarci di sperare. Ti sei aggrappata al mio braccio come alla vita, con una forza che non avevi. Quanto pesavi? Ventuno grammi, mi viene da dire, ora.
Non ce l’hai fatta. Non ti abbiamo evitato nulla. E non so se c’entra l’ultimo spavento, l’ennesima nostra follia, questi fuochi di capodanno in cui far sparire le nostre urla, e bruciarle, per non sentire il silenzio che abbiamo dentro. Ti abbiamo dato sessanta ore, ci siamo dati sessanta ore, per viverle con te. Per darci l’illusione che davvero i gatti abbiano sette vite, che non valga per tutti la legge semplice della sofferenza e della fine.
In ultimo l’agonia è stata corta come il tuo destino, semplice come il tuo nome. Due calci nel vuoto e nessun respiro più nei polmoni. “Crash?”, ti ho chiesto. Non mi hai risposto, non mi hai mai dato alcuna risposta. Ma io lo so: come sempre, in questi casi, ho sbagliato io le domande. Perché le verità non richieste, quelle me le hai date tutte.
Addio, piccola. Spero non faccia troppo freddo, laggiù.

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