Il protagonista di questa storia è seduto nell’erba. Il fondo dei suoi pantaloni è bagnato, perché l’umidità del mattino non è stata ancora toccata dai raggi del sole, ma lui non se n’è curato. Adesso è lì, a gambe incrociate, con lo sguardo fisso su un unico filo d’erba. I suoi occhi sono neri, e li tiene puntati su quello stelo sottile come se raccogliesse chissà quali segreti. Nella luce calda dell’aurora, i suoi capelli biondi sembrano scuri, gli pendono davanti alla faccia come un sipario. In realtà, non è il filo d’erba che sta osservando con tanto interesse, bensì le gocce d’acqua che ne imperlano la superficie. Sta scrutando con i suoi occhi senza pupille la rotondità di una goccia di rugiada, la magia della tensione superficiale che la tiene insieme e la rende una. Il protagonista di questa storia si alza dal letto di notte, percorre due chilometri a piedi e si siede nell’erba bagnata, in attesa dei primi raggi del sole, perché è convinto che ci sia un momento, nel tempo, in cui quella goccia di rugiada può essere raccolta, un istante preciso in cui la sua solidità non è apparente, in cui la sua perfezione non è ideale, ma reale. Ha deciso di volere impadronirsi di una di quelle gocce, per farne un gioiello; vuole incastonarla in una mano minuscola d’argento, che la tenga raccolta e la avvolga, da appendere ad una lunga, sottile catena, brillante, fragile e ingannevole come le vite di tutti.
Il protagonista di questa storia ha un po’ di rumore nel cervello. A volte scoppiano petardi, che lui scambia per colpi di fucile, o sono colpi di fucile che il mondo chiama petardi. A volte esplodono i fuochi d’artificio, che lui scambia per bombardamenti di guerra. O sono bombardamenti che il mondo chiama fuochi d’artificio. Allora lui pensa alla rugiada come ci aveva pensato da ragazzo, cioè come ad una lacrima pianta dalla terra, una lacrima di pietà più che di orrore o dolore. Però nella luce dell’alba, quando non c’è odore di polvere da sparo e la voce dell’uomo è silente, lui riconosce la vera natura della rugiada. Lui vi vede il sudore del mondo.
Il protagonista di questa storia vede bene le cose solo da vicino; appena si allontana, quelle sfocano. La sua miopia è la miopia di una razza. Analizza con gli occhi e sintetizza con la mente, ma solo se è in buona forma. Tuttavia la sua pancia gli ha detto: quella goccia di rugiada è reale, impadroniscitene. Da allora, lui la osserva ogni mattina, con l’esattezza ossessiva dei folli, determinato ad agire solo dopo avere capito. Lui sa che la precarietà della rugiada è ingannevole: domani comparirà nuovamente, come un pezzo di una ruota che gira sott’acqua. Non è della goccia che deve impadronirsi, ma della sua essenza. Non sono le molecole che la compongono a definirne l’identità, ma il loro significato.
Il protagonista di questa storia ha le mani bagnate, la bocca asciutta e il cuore malato. Vuole che il tempo gli dia una risposta e gli conceda una tregua fra la notte ed il giorno, gli permetta di fare gioielli con l’idea delle gocce. Lui non lo sa, ma sta chiedendo al sole di fargli accettare la paura, perché la rugiada è il sudore del mondo. Lui non lo ha ancora capito fino in fondo, ma quello che vuole appendersi al collo, e appendere al collo di quelli che ama, è la fatica di vivere. È il sudore della terra quando il giorno s’addormenta e la notte prende il sopravvento. È la pena e l’affanno di affrontare il buio e di resistere al terrore dell’oscurità. Un’impresa che spilla sudore. Lui ci riflette ogni giorno, ma giungerà alla conclusione che per stringere in una mano d’argento una goccia di rugiada, deve accettare la paura, e andarci a braccetto.
Il protagonista di questa storia ha la pelle d’oca, nell’aria fredda del mattino. Il suo cuore fa capriole, ma in mano stringe un destino. Ha afferrato un ciuffo d’erba, e la rugiada gli cola fra le dita. Sta pensando che quella paura di vivere è ciò che rende la vita una sfida così stimolante. Nella luce fredda dell’alba, la sua mano sembra d’argento, le gocce di rugiada gli riempiono i palmi. Il suo gioiello è lì, ed è un promemoria per la felicità.
Rabbrividendo nel freddo vento del nuovo giorno, il protagonista di questa storia si alza, toccando distratto il fondo bagnato dei pantaloni. Ignora le prime voci dell’uomo e accoglie la sua paura come una liberazione. Così diviene il protagonista di una storia finita. E di una che inizia.
Il protagonista di questa storia è un uomo che ha capito che senza bagnarsi non ci si asciuga.
È una bella storia, lo sarà anche quella che inizierà!
le storie belle mi fanno paura, perché di solito sono quelle che contengono dolore, mentre le altre sono noiose (come l’inferno di dante a confronto col suo paradiso). però ormai abbiamo capito da tempo che non esiste una vera distinzione fra le due, no? perciò ci limitiamo a raccontarle, a descriverle, o a viverle 🙂
(“senza bagnarsi non ci si asciuga”… ogni tuo commento è un’ispirazione!)
….e poi c’è anche chi sceglie un limbo privato, ma quella è un’altra storia ancora no?
Riuscire a raccontarle non è cosa da poco, è comunque un atto di libertà (e quanto ci sarebbe da dire a tale proposito. ..)
Ps felice dell’ispirazione! 🙂
oh sì, un’altra storia ancora.
sulla libertà mi piacerebbe leggere qualche pensiero tuo per esteso: ogni volta che fai riferimento a quella parola, ho la sensazione che tu ne abbia un’idea poco convenzionale.
Prima o poi lo scriverò… intendo in modo diretto e chiaro… però è probabile che non lo riterrai così poco convenzionale, non so.
Posso dirti che la sto cercando, la libertà è una responsabilitá, richiede consapevolezza e tante altre cose. Ti confido che anche la sintesi di quasi tutti i miei post fa parte di una ricerca, un modo per andare al nocciolo (io che parlo invece tanto!).
scusate se m’intrometto, a proposito di Libertà e responsabilità mi avete fatto ricordare questo libro anche se non ricordo se l’ho ancora…
http://www.unilibro.it/libro/donnarumma-d-alessio-maria/verso-liberta-responsabilita-modelli-percorsi-strategie/12005827
non riesco a fare a meno di pensare che, nel nostro solipsismo, dimentichiamo che le nostre storie finite poi le raccoglie qualcun altro, e che questo è un po’ il senso del mio ascoltare tanto reggae… bisogna che io ricominci a fumare roba verde, ogni volta che ti leggo mi fai questo effetto… sarà che ti ho conosciuto quando sostenevi che la blogsfera era una moderna agorà greca di menti elette, ma mi accendi tutto un drugolebowskismo inestinguibile
cioè, ti istigo al fumo?
non me l’hai mai perdonata quella cosa dell’agorà, cacchio! ma le menti eccelse io non ce l’ho mai messe, eh, fosti tu a infilarci il tafano e alcibiade e tutto il simposio.
io ti dirò piuttosto che mi sento il protagonista di una storia di zombie. avanziamo con la stessa incerta lentezza, alla ricerca delle stesse poche cose essenziali, con la stessa inconsapevolezza. è per questo che le storie narrate sono così importanti: guardano nelle pieghe di cose che, altrimenti, sono davvero tutte uguali.
E’ la parabola dell’uomo, miope e incurante di bagnarsi il fondo dei pantaloni. Vede il particolare ma non coglie l’interezza. E’ cieco e non osserva che il sole illuminerà il prato.
Il protagonista della storia è il nostro io, il nostro noi che vive di egoismi.
non so come fai, ma riesci sempre a trovare un significato dietro ad uno scritto. a volte trovi significati che neanche io trovo nei miei stessi scritti.
poiché scrivere aiuta a capire se stessi (e a capire cosa gli altri capiscono di te), questo mi è molto utile, davvero.
Swann, chi scrive trasmette messaggi, esattamente come quando parla o gesticola, quindi basta leggere con attenzione o osservare con cura e scopriamo cosa sta nascosto.
Mi piace osservare e leggere per cogliere le sfumature, i dettagli che poi analizzo (giusto o sbagliato non lo so ma rappresentano quello che ho percepito).
Il rumore nel cervello, i fuochi di artificio al posto dei bombardamenti, il vedere qualcosa di diverso da quello che il mondo vede e la follia di aspettare fino ad arrivare all’essenza e scoprire che l’essenza è nella nostra mano che diventa d’argento. E la paura di vivere che ci rende vivi, se sappiamo riconoscerla ed accettarla, se sappiamo camminarle a fianco senza nasconderci nel primo buco che sa di tana ma che ci impedisce di afferrare ciuffi d’erba per possedere gocce di rugiada.
ehi, ma io con te che le uso a fare le metafore? tutto chiaro come il sole…
“il primo buco che sa di tana” è un’immagine efficace, corrisponde bene ai miei pensieri…
Una serata piena di pensieri che frullano in testa, si accavallano, non trovano una direzione. Mi imbatto in te e scatta l’interruttore, dalla matassa fa capolino il filo ed io lo seguo.
Davvero bello.
adesso mi fa addirittura i complimenti. sono quasi preoccupato